Il caso sta facendo discutere in queste settimane e, come spesso capita, la discussione ha travalicato in fretta l’ambiente di riferimento, che in questo caso è quello culturale, per infiammare gli animi: i depositari dei diritti del celebre e graffiante scrittore inglese Roald Dahl (1916-1990), uno dei più noti autori comunemente definiti per ragazzi che il Novecento abbia avuto, hanno sottoposto pagina per pagina i suoi romanzi a una revisione condotta con lo scopo – così si è detto – di avvicinare i testi al pubblico e alle sensibilità di oggi. A seguito dello scalpore suscitato, l’editore si è affrettato a promettere che, a fianco delle versioni ritoccate, continuerà (o riprenderà) a stampare anche i testi originali.
Che si sia messo in cantiere tutto ciò senza sentire il bisogno di dichiarare l’operazione in maniera esplicita – che questa sia cioè emersa praticamente a conti fatti – è un impressionante segno dei tempi, così come la maniera disinvolta con cui si è lavorato sui testi di un autore non più in vita, dunque senza potegli domandare il consenso. Una spigliatezza quasi corsara con cui si è agito forti semplicemente del fatto di detenere i diritti d’autore. Né la copertina né il frontespizio né una nota al testo pare riportassero traccia, per lo meno sotto forma di avvertimento, del fatto che il testo fosse stato modificato, quasi che questa fosse un’operazione normale, puramente amministrativa, se non addirittura un’azione da compiere di nascosto.
Certo, quella del consenso è una questione apparentemente oziosa, dal momento che sono stati gli stessi detentori dei diritti – gli unici che avrebbero potuto farlo – a commissionare ciò, ma come tale non è priva di implicazioni più profonde per spiegare quanto una persona si senta moralmente autorizzata a intervenire per modificare la parola di qualcun altro. Il diritto d’autore è relativamente recente nella storia della scrittura, così come il ‘diritto’ di un testo d’esistere nella forma in cui lo ha voluto il suo autore: per secoli i testi sono stati chiosati, interpretati, bistrattati più o meno volontariamente da copisti ed editori, in generale maneggiati in maniera molto più disinvolta di quanto non sia pratica fare oggi.
È la nascita della filologia, avvenuta con l’Umanesimo, ad averci condotti passo a passo verso la sensibilità odierna. E se oggi le forme di scrittura condivisa, comuni in rete, dove il testo può facilmente essere di tutti e di nessuno, o addirittura l’intelligenza artificiale, capace ormai di generare uno scritto coerente che non abbia più un padre fisico, stanno riportando la concezione del testo verso soluzioni ibride, ciò non significa che tale modo di procedere vada applicato in maniera altrettanto disinvolta anche a testi che un autore o un’autrice lo hanno ancora.
Poniamo che lo scopo dell’operazione, non priva di sfumature ideologiche – se con ideologico s’intende propugnatore di una visione della società –, fosse davvero soltanto quello di attualizzare i testi per renderli più facilmente fruibili alle generazioni di oggi e più vicini alla sensibilità dei tempi. Di solito con le grandi opere, i cosiddetti classici – quei testi che continuano a trovare lettori pur con il trascorrere dei secoli –, questo genere di compito è affidato ai commenti e alle note a piè di pagina, ma, si converrà, sarebbe pedante e controproducente corredare con un commento un libro destinato ai giovanissimi. E allora? Si potrebbe davvero aprire un discorso in quest’ambito; molti grandi classici in lingua straniera vengono d’altra parte ritradotti a distanza di qualche decennio e ciò è un segno di vitalità. Mai però si tratta di operazioni preventive così capillari e insidiose come quella messa in pratica sui testi di Roald Dahl.
Sarebbe utile conoscere esattamente quali siano stati i criteri adottati. Il sospetto è che dietro questa ripulitura vi sia più che altro un criterio meccanico che nel dubbio sostituisce sistematicamente. Che la revisione sia cioè il frutto di un automatismo acritico che ha capito come l’azione di eliminare sia più semplice e forse più redditizia che non quella di lasciare aperta la sfida della spiegazione e della contestualizzazione. Un metodo che oltretutto, cercando di sanare in anticipo tutti i punti potenzialmente delicati di un testo, finisce in molti casi con il paradosso di non urtare più, forse, le molte sensibilità di cui il mondo si compone ma di cozzare con il semplice buon senso. Nessuno ha mai pensato di sostituire nei racconti per bambini i carri e le carrozze con delle macchine o con dei treni perché sono questi i mezzi di trasporto che i ragazzi oggi vedono, eppure ciò non impedisce alle bambine e ai bambini di comprendere un testo nel quale figuri una carrozza; si potrebbe anzi dire che se oggi i giovani sanno cosa sia una carrozza, è proprio perché le hanno incontrate nelle fiabe e nei cartoni animati.
Si controbatterà che non è questo l’ambito in cui si vuole avvicinare il testo ai ragazzi, ma quello della maggiore coscienza contemporanea verso le minoranze e verso chi si trova in posizione svantaggiata, gruppi che spesso non si sono considerati a sufficienza, o che si sono considerati con caritatevole paternalismo (che non è meno grave), quelle fette della popolazione che molta narrazione aveva in passato relegato ai margini o addirittura espulso dal discorso pubblico. L’impressione è però che chi sostenga questa causa appoggiandosi sulla giovane età delle ragazze e dei ragazzi stia in realtà sottovalutando a priori i bambini, i quali a volte nei loro giudizi innocenti sanno essere più taglienti e – si passi il termine – più ‘cattivi’ degli adulti, e che a differenza di molti adulti continuano tra l’altro a interrogarsi sulla realtà e a porre domande.
Occorre allora chiedersi – e qualcuno lo sta facendo – se l’idea pedagogica che sta alla base di un simile ragionamento non nasconda, al di là delle buone intenzioni, delle insidie, dal momento che sostituisce per i ragazzi l’esperienza del dialogo e dell’interrogarsi, che a suo modo è profonda esperienza di vita, con l’esperienza uterina di un mondo smussato, caldo e accogliente, fatto su misura per loro perché aconflittuale. Tra il ripetere continuamente ai ragazzi e alle ragazze che il mondo è un luogo cattivo e ingrato e il far credere loro che il mondo sia una culla costruita su misura per ognuno di noi, esistono parecchie posizioni intermedie che meglio potrebbero favorire la crescita dei giovani.
Tale scopo, che si potrebbe definire didattico o pedagogico a seconda di dove si vorrà porre l’accento, stride tuttavia se applicato alla letteratura, come se il contenuto del testo possa prescindere dal suo contesto, come se non si leggesse anche per trasportarsi in un mondo altro. L’idea che a certi libri, siccome finiscono in mano alle bambine o ai bambini, occorra prestare maggiore premura, è poi una posizione che ha sì un pregio (solleva un punto importante: quello della mediazione fra il mondo degli adulti e quello dei bambini), ma che ha anche almeno un difetto evidente: sminuisce la letteratura per i giovani a settore minore, o addirittura non la considera letteratura. Viene infatti il dubbio che chi ha intrapreso quest’operazione abbia confuso un romanzo con un manuale scolastico. I manuali scolastici si caratterizzano però tra le altre cose per la loro durata di vita relativamente breve, mentre la forza della buona letteratura è sempre stata quella di poter prescindere dalle date di scandenza.
È però lecito dubitare che l’operazione avesse soltanto un intento pedagogico-didattico. Di certo risponde anche a una semplice e basilare regola del mercato, che invita chi volesse diffondere un prodotto a proporre al proprio cliente esattamente ciò che crede che quest’ultimo voglia. Dello scopo commerciale (o anche commerciale) della manovra si è parlato: la stessa proposta di rimettere in circolazione l’edizione originale, al di là di una parziale ammenda (come pure è), non è anche una straordinaria operazione commerciale che, stimolando il confronto tra le due versioni (nel senso anche filologico del termine), favorirà in parallelo anche le vendite?
E chissà che tra i fini, forse inconsci, forse misconosciuti, di quest’operazione non vi fosse anche una cautela per così dire ‘giuridica’. In un mondo litigioso, che spesso risolve persino le diatribe più futili in tribunale (o nei tribunali ben più inquietanti che vengono montati in rete), perché non cercare da subito, nel dubbio, di espungere quelle punte che potrebbero spingere qualcuno a offendersi ma soprattutto a intentar causa? Si badi che l’esigenza di cautelarsi è un pensiero più presente nelle nostre vite di quanto non si voglia ammettere; proditoriamente s’insinua anche nelle scuole, ogniqualvolta un docente valuta – e non per forza lo fa in cattiva fede – non già per aiutare l’allievo a migliorarsi ma soltanto per giustificare la valutazione, «nel caso in cui i genitori facessero ricorso…». Qualcosa di simile all’autocensura, insomma.
Di fronte a tale termine (censura) si immagina forse un organo oscuro che agisce per fini altrettanto oscuri, o per garantire una posizione di potere, eppure i censori nei secoli hanno spesso agito anche perseguendo un ipotetico bene. I danni in questo caso sono stati riconosciuti solo a posteriori. Il censore tipo è un funzionario anonimo, che si applica dietro una scrivania, che nel dubbio cancella più di quello che dovrebbe perché il suo è un lavoro cautelativo. Più che riflettere, agisce. Tant’è vero che spesso si ritrova impotente, come hanno capito donne e uomini di tutti i secoli, contro il linguaggio astratto e metaforico, che in alcuni casi è diventato il mezzo per provare comunque a far passare un messaggio. Non somiglia questo ritratto, azzardando una caricatura che forse non sarebbe dispiaciuta allo stesso Roald Dahl, alla descrizione di chi ha agito sui suoi testi?
Il confine tra la volontà di far dire con altre parole a un testo quello che il suo autore voleva dire e far dire allo stesso testo quello che il testo non dice ma che piacerebbe che dica è labile, e l’operazione, pericolosa per sua natura, indurrebbe non solo alla massima cautela ma anche al dibattito pubblico, alla trasparenza e a un minimo di conoscenza dell’opera di Roald Dahl. Considerare, per concludere, alcune delle modifiche, tra quelle riportate dalla stampa, dal punto di vista stilistico permette di evidenziare la loro goffaggine, l’improbabilità che dei giri di frase così pedanti e didascalici siano usciti dalla penna caustica di Roald Dahl. Pensare che si possa intervenire a piacimento su un testo letterario senza tradire lo stile di un’autrice o di un autore significa disconoscere l’importanza che lo stile ha nella definizione dell’identità di un testo e, di riflesso, nell’apprezzamento dei lettori. E se ancora una volta si ribatterà che lo si è fatto solo perché si trattava di letteratura per l’infanzia, significa forse davvero che si è confusa la letteratura (che, a parer di chi scrive, quando è buona, è letteratura e basta) con qualcosa d’altro.
Matteo Ferrari è docente di italiano al Liceo Lugano2 e redattore del sito viceversaletteratura.ch