Stando a galla, sulle onde, fra speranza e disperazione
Ricordando i migranti per mare, quelli che dall’Europa sono partiti, per cercare un mondo migliore
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Ricordando i migranti per mare, quelli che dall’Europa sono partiti, per cercare un mondo migliore
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Ricordando i migranti per mare, quelli che dall’Europa sono partiti, per cercare un mondo migliore
Ben altre condizioni, certo, o per dirla con papa Francesco, a proposito della sua storia famigliare nell’ intervista alla RSI, semplicemente “altri tempi”. Ma resta pur sempre il fatto che quando oggi si guarda con sospetto, paura, ostilità alla disperazione che bussa ai nostri confini, varrebbe pure la pena di ricordare che anche i nostri antenati, neanche poi così tanto tempo fa, per non morire avevano lasciato tutto, i nostri villaggi, le nostre valli, per varcare l’oceano e cercare una nuova vita (spesso, poi, solo un miraggio) in America, occidentale o meridionale.
Quasi 140 anni fa, per la precisione nel 1884, quel viaggio della speranza lo intraprese, fra i tanti, anche un importante scienziato e botanico bleniese, Mosè Bertoni, che con moglie, madre e cinque figli si imbarcò verso l’Argentina, da dove poi si trasferirà in Paraguay per diventare uno dei grandi personaggi tuttora celebrati della storia di quel Paese.
In quel viaggio, su quella stessa nave, in mezzo a tanti diseredati stipati nel fondo, in terza classe, c’era pure uno scrittore italiano allora già affermato, Edmondo De Amicis, che con spirito giornalistico ante litteram, sensibile com’era al fenomeno migratorio, aveva deciso di documentare le condizioni di un simile viaggio, dandone poi conto in un libro, “Sull’oceano”, che ebbe un notevole riscontro (secondo soltanto al suo libro più noto, il celeberrimo “Cuore”).
De Amicis è stato autore anche di poesie, in cui si possono rinvenire i diversi temi cari alla sua produzione in prosa, a cominciare, appunto, dal fenomeno migratorio. Al 1880 risale una poesia intitolata proprio “Gli emigranti”, che riletta oggi, nel dovuto rispetto per uno stile ed una lingua forse di non eccelse qualità ma di forte impatto emotivo, merita una doverosa rilettura, come esempio di “impegno” e di “umana solidarietà” di uno scrittore e intellettuale che volle farsi anzitutto interprete e testimone delle terribili condizioni in cui tanti italiani (e ticinesi, aggiungeremmo, senza tema di smentita) hanno affrontato le onde di un mare che li avrebbe forse portati nel paese della salvezza e del riscatto.
In questi tempi di sbarchi funesti, di imbarcazioni a pezzi e di vite distrutte cui in Italia e in Europa non si sa come rispondere con “umanità”, i versi di De Amicis possono forse aiutarci almeno a non ritenere tutto ciò come estraneo alla nostra esistenza ed identità.
Cogli occhi spenti, con lo guancie cave,
Pallidi, in atto addolorato e grave,
Sorreggendo le donne affrante e smorte,
Ascendono la nave
Come s’ascende il palco de la morte.
E ognun sul petto trepido si serra
Tutto quel che possiede su la terra.
Altri un misero involto, altri un patito
Bimbo, che gli s’afferra
Al collo, dalle immense acque atterrito.
Salgono in lunga fila, umili e muti,
E sopra i volti appar bruni e sparuti
Umido ancora il desolato affanno
Degli estremi saluti
Dati ai monti che più non rivedranno.
Salgono, e ognuno la pupilla mesta
Sulla ricca e gentil Genova arresta,
Intento in atto di stupor profondo,
Come sopra una festa
Fisserebbe lo sguardo un moribondo.
Ammonticchiati là come giumenti
Sulla gelida prua morsa dai venti,
Migrano a terre inospiti e lontane;
Laceri e macilenti,
Varcano i mari per cercar del pane.
Traditi da un mercante menzognero,
Vanno, oggetto di scherno allo straniero,
Bestie da soma, dispregiati iloti,
Carne da cimitero,
Vanno a campar d’angoscia in lidi ignoti.
Vanno, ignari di tutto, ove li porta
La fame, in terre ove altra gente è morta;
Come il pezzente cieco o vagabondo
Erra di porta in porta,
Essi così vanno di mondo in mondo.
Vanno coi figli come un gran tesoro
Celando in petto una moneta d’oro,
Frutto segreto d’infiniti stonti,
E le donne con loro,
Istupidite martiri piangenti.
Pur nell’angoscia di quell’ultim’ora
Il suol che li rifiuta amano ancora;
L’amano ancora il maledetto suolo
Che i figli suoi divora,
Dove sudano mille e campa un solo.
E li han nel core in quei solenni istanti
I bei clivi di allegre acque sonanti,
E le chiesette candide, e i pacati
Laghi cinti di piante,
E i villaggi tranquilli ove son nati!
E ognuno forse sprigionando un grido,
Se lo potesse, tornerebbe al lido;
Tornerebbe a morir sopra i nativi
Monti, nel triste nido
Dove piangono i suoi vecchi malvivi.
Addio, poveri vecchi! In men d’un anno
Rosi dalla miseria e dall’affanno,
Forse morrete là senza compianto,
E i figli nol sapranno,
E andrete ignudi e soli al camposanto.
Poveri vecchi, addio! Forse a quest’ora
Dai muti clivi che il tramonto indora
La man levate i figli a benedire….
Benediteli ancora:
Tutti vanno a soffrir, molti a morire.
Ecco il naviglio maestoso e lento
Salpa, Genova gira, alita il vento.
Sul vago lido si distende un velo,
E il drappello sgomento
Solleva un grido desolato al cielo.
Chi al lido che dispar tende le braccia.
Chi nell’involto suo china la faccia,
Chi versando un’amara onda dagli occhi
La sua compagna abbraccia,
Chi supplicando Iddio piega i ginocchi.
E il naviglio s’affretta, e il giorno muore,
E un suon di pianti e d’urli di dolore
Vagamente confuso al suon dell’onda
Viene a morir nel core
De la folla che guarda da la sponda.
Addio, fratelli! Addio, turba dolente!
Vi sia pietoso il cielo e il mar clemente,
V’allieti il sole il misero viaggio;
Addio, povera gente,
Datevi pace e fatevi coraggio.
Stringete il nodo dei fraterni affetti.
Riparate dal freddo i fanciulletti,
Dividetevi i cenci, i soldi, il pane,
Sfidate uniti e stretti
L’imperversar de le sciagure umane.
E Iddio vi faccia rivarcar quei mari,
E tornare ai villaggi umili e cari,
E ritrovare ancor de le deserte
Case sui limitari
I vostri vecchi con le braccia aperte.
Una lettura del volume “Il Capitale. Il lungo presente e i miei studenti” di Paolo Favilli, presentato domani alla Filanda di Mendrisio