Tracce di rosso – Unità di sinistra
Dal volume appena pubblicato dalla Fondazione Pellegrini Canevascini per i centro anni della presenza socialista nel governo ticinese, un capitolo di particolare attualità
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Dal volume appena pubblicato dalla Fondazione Pellegrini Canevascini per i centro anni della presenza socialista nel governo ticinese, un capitolo di particolare attualità
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Che il rapporto con il potere costituisca un importante fattore di divisione all’interno della sinistra – per sua natura «parte in conflitto con l’esistente» – non è certo una novità.
Non sorprende perciò che, anche in Ticino, la presenza di un rappresentante socialista in un esecutivo a chiara maggioranza borghese abbia generato più attriti e frizioni che coesione e unità di intenti all’interno del fronte progressista.
Così, nonostante il sostegno elettorale fornito, in alcune occasioni, dalle altre forze di sinistra, spesso più piccole e più radicali del Partito socialista ticinese, rari furono i momenti in cui tali forze si riconobbero nell’operato del consigliere di Stato socialista, mentre le critiche «da sinistra» alla politica governativa dei socialisti costituiscono una costante di questo secolo di storia politica ticinese.
A dividere i partiti operai fu innanzitutto la scelta stessa di partecipare, in posizione minoritaria, all’esecutivo cantonale. Celando dietro tale scelta interrogativi di spessore in merito alla natura dello Stato liberaldemocratico e ai rapporti tra riforme e rivoluzione, la partecipazione di esponenti socialisti a governi borghesi diede luogo, sin dalla fine del XIX secolo, a controversie e rotture in seno al movimento operaio internazionale. In Ticino, la questione fu particolarmente dibattuta a sinistra in almeno due momenti storici: nei primi anni Venti – quando l’ala sinistra del partito, affascinata dalla rivoluzione bolscevica, combatté con forza quello che giudicava un passo fondamentale sulla via dell’integrazione e della collaborazione di classe – e a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta – quando la decennale critica della sinistra socialista all’intesa con i liberali si «saldò» con la contestazione giovanile e studentesca, portando il nascente PSA su posizioni di rottura radicale rispetto alle vigenti logiche consociative.
Al di là delle inevitabili differenze dovute al contesto, i termini del confronto sono a tratti simili e poco originali, perché legati in ultima analisi a quella tensione tra riforme e rivoluzione che attraversa l’intera storia del movimento operaio europeo. Alcune specificità del sistema politico cantonale hanno però impresso al confronto un’articolazione peculiare: è il caso ad esempio dell’elezione popolare del governo, introdotta nel 1892, e del sistema proporzionale, adottato definitivamente nel 1920 e integrato dalla cosiddetta «formula Cattori» del 1922. Sebbene tale sistema elettorale abbia consentito ai socialisti di accedere a responsabilità governative senza doversi accordare con parte dello schieramento borghese (da qui la «partecipazione anticollaborazionista» propugnata nel 1920 da Borella e Canevascini), è chiaro che proprio la formula cattoriana permise la definitiva stabilizzazione di un moderno sistema consociativo, in cui la collaborazione tra le forze di governo divenne la norma e in cui il funzionamento collegiale dell’esecutivo riduceva notevolmente i margini di manovra dei singoli membri.
Da una prospettiva rivoluzionaria e classista, qual è storicamente quella dei contrari alla partecipazione, tale sistema elettorale ha il grosso difetto di occultare i conflitti di classe a livello politico, mistificare l’opinione popolare e integrare le forze opposizionali nell’ideologia del consenso, costituendo così un importante blocco all’evoluzione dei rapporti di forza. Già nei dibattiti del 1920, la sinistra attirò d’altronde l’attenzione dei compagni di partito sui bocconi amari che avrebbe dovuto ingoiare l’eventuale eletto socialista.
D’altro canto, adottando una prospettiva riformista appare evidente come proprio la formula cattoriana, coniugata con l’abilità politica di alcuni protagonisti, come Guglielmo Canevascini, abbia permesso ai socialisti di assumere a tratti, quale ago della bilancia, un ruolo politico sproporzionato rispetto alla consistenza elettorale del partito. E questo non solo, come avrebbero maliziosamente sostenuto i comunisti, nella distribuzione di impieghi e di cariche pubbliche. Più in generale, chi adotta logiche più pragmatiche fatica ad accettare l’idea dell’abbandono volontario del consesso esecutivo: anche nei decenni più recenti, a fronte dell’isolamento sempre più marcato del suo consigliere di Stato all’interno di una compagine governativa spostatasi decisamente più a destra, la dirigenza del PS ha sempre ribadito l’importanza di tale partecipazione, non fosse altro che per cercare di mitigare le decisioni della maggioranza.
Oltre alla partecipazione stessa a un governo borghese, è anche l’operato del consigliere di Stato socialista a generare attriti e frizioni all’interno della sinistra cantonale. Dagli anni Venti a oggi, con l’importante eccezione dei Verdi (la cui identità partitica si fonda piuttosto sull’apparizione di nuove e diverse sensibilità), tutte le altre formazioni della sinistra ticinese sono state più piccole e più radicali del PS. Potenziali competitor di quest’ultimo, esse non perdono occasione per smarcarsi dalla moderazione e dal «collaborazionismo» dei vertici socialdemocratici, coltivando in tal modo la propria identità «rivoluzionaria».
In tale dinamica politica, il consigliere di Stato fu spesso tra i loro bersagli preferiti. Le critiche nei suoi confronti ruotavano intorno a tre grandi aspetti. Innanzitutto, le alleanze di governo (si pensi al Governo di Paese, all’Intesa di sinistra – duramente contestata dai comunisti prima ancora che dalla sinistra socialista – o all’Interpartitica dei secondi anni Settanta). In secondo luogo, il suo sostegno a talune scelte governative, spesso maturate nel segno del compromesso e criticate dalle altre forze di sinistra, oltre che da una parte del suo stesso partito. Infine, le pratiche di sottogoverno, la «politichetta da ufficio di collocamento» denunciata dai comunisti sin dagli anni Venti e gli intrallazzi poco chiari con determinati enti o gruppi di interesse (celebre il «caso Losinger» del 1979).
La ripetuta denuncia dell’operato del consigliere di Stato non precludeva però eventuali appoggi di natura elettorale. Negli anni Venti e Trenta i comunisti oscillarono infatti, in ragione dei bruschi capovolgimenti di linea operati dall’Internazionale comunista, tra l’invito a votare «scheda bianca, scheda nulla o scheda di protesta» per il Consiglio di Stato e l’aperto sostegno alla candidatura di Canevascini, unico antifascista nel governo cantonale. Se la nascita del POCT, nel secondo dopoguerra, sfociò in una rinnovata sfida al PST e al suo consigliere di Stato (ricordiamo l’iniziativa per la revoca del governo del 1945-46), nel corso dei due decenni successivi i comunisti tornarono a offrire, in cambio di magri o nulli compensi, il loro sostegno ai socialisti per l’elezione governativa. Soltanto sul finire degli anni Sessanta, quando il clima politico segnato dalla contestazione giovanile e dall’apparizione del PSA rese di nuovo percorribile un atteggiamento di sfida alla socialdemocrazia, i comunisti ritornarono a presentare liste per l’esecutivo, congiunte – dopo il 1979 – con quelle dei socialisti autonomi.
Il Consiglio di Stato del 1987, con due socialisti (PS e PSA)
Lo scenario degli anni Ottanta fu segnato soprattutto dalla contrapposizione tra i due partiti socialisti, mentre negli ultimi decenni la tendenza tra le varie formazioni che compongono, accanto al PS riunificato, la galassia della sinistra ticinese (Verdi, MPS, PC, POP) è stata piuttosto quella della presentazione di una propria lista per il Consiglio di Stato. A spiegare tale scelta concorrono senza dubbio la diversità di traiettorie e di cultura politica (nel caso dei Verdi) e la volontà di smarcarsi dai «social-liberali» (nel caso delle formazioni della sinistra radicale), ma anche ragioni più contingenti quali la maggiore copertura mediatica concessa ai partiti in corsa per l’esecutivo.
Infine, indipendentemente dai richiami più o meno espliciti all’idea rivoluzionaria, le altre formazioni di sinistra sono per certi aspetti obbligate a tenere conto del cosiddetto voto utile: quando esse presentano una lista sia per il Gran Consiglio sia per il Consiglio di Stato, la differenza che spesso si registra nei risultati per i due consessi, così come lo scarto parallelo e inverso visibile nei risultati del PS, testimoniano della persistenza di tale logica in una parte non trascurabile dell’elettorato progressista.
In conclusione, al di là delle convergenze elettorali, la figura e l’operato del consigliere di Stato socialista furono all’origine di molteplici divisioni e polemiche all’interno della sinistra cantonale. Invischiato nelle logiche consociative, e in taluni frangenti alleato dei partiti borghesi alla guida del paese, il consigliere di Stato apparve, agli occhi dei più radicali, come l’emblema dell’odiato riformismo socialdemocratico, della collaborazione e del compromesso di classe. Da qui la costante richiesta di una condotta più conforme ai principi ideali del socialismo, di un atteggiamento più duro e intransigente nei confronti della maggioranza borghese e, per i più conseguenti, dell’uscita dei socialisti dal governo cantonale.
Tobia Bernardi, Giacomo Müller
Il libro “Tracce di rosso” è disponibile nelle librerie ticinesi
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