Di fronte alla morte
La scrittrice Michela Murgia affida ad un’intervista la notizia della sua grave malattia. E parte il circo mediatico
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La scrittrice Michela Murgia affida ad un’intervista la notizia della sua grave malattia. E parte il circo mediatico
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Per una coscienza che sappia essere parte della vita e della natura
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La scrittrice Michela Murgia affida ad un’intervista la notizia della sua grave malattia. E parte il circo mediatico
È un’intervista che ha fatto subito notizia. La scrittrice Michela Murgia (brava quanto notoriamente controcorrente nelle sue note pubblicate dai giornali o nelle sue apparizioni televisive), nell’imminenza dell’uscita del suo nuovo libro, “Tre ciotole” (Mondadori), a colloquio con Aldo Cazzullo annuncia, via “Corriere della Sera”, che è malata terminale di cancro. Carcinoma renale, quarto stadio, con metastasi diffuse. Ha pochi mesi di vita. Un’intervista che merita di essere letta, certamente, e anzitutto merita tutto il rispetto che si deve a chiunque si trovi di fronte a quella situazione, a vivere consapevolmente la preparazione della propria morte.
L’intervista assume dunque un valore che va ben al di là di quello letterario (o promozionale, per il libro), è una sorta di “testamento”, molto laico, quasi “brutale” nello spiegare come si sente, cosa desidera ancora dalla vita, cosa pensa che l’aspetti dopo la morte. Murgia parla soprattutto in modo esplicito di quello che in fondo è (ancora, e spesso) un “tabù”, quel “brutto male” o “male incurabile” con cui si allude, senza volerlo nominare, al cancro.
È un’intervista con cui ogni lettore può o deve “fare i conti”, perché tocca l’essenziale dell’esistenza di ciascuno; una confessione a cui, in questa sede, non si vuole né aggiungere né togliere nulla. Per rispetto, appunto, di una condizione ed un’esperienza che sono assolutamente personali, che ognuno ha il diritto di esprimere o sottacere.
Quello che qui brevemente ci si sente di annotare una volta di più, non senza rammarico, è l’eco cacofonica che ha fatto seguito all’intervista di Michela Murgia. Non c’è giornale, sito, canale televisivo in Italia che non abbia dato conto di questa intervista, affidandola a riassunti redazionali, commenti di giornalisti, scrittori, psicologi fino ad arrivare ai politici, con gli “auguri” di Giorgia Meloni e Matteo Salvini.
Secondo una prassi consolidatissima, sono tutti pronti a dire la loro, tutti disponibili ad esprimersi, ad aprire ed alimentare una riflessione che diventa subito dibattito per poi trasformarsi rapidamente in semplice “rumore di fondo”, chiacchiericcio in cui ci si affanna e azzanna su l’uno o l’altro dettaglio delle esternazioni della scrittrice: così, si enumerano i “precedenti eccellenti” di un simile “coming out”, si scrivono articoli come “spin off”, sulla famiglia queer di Murgia, sull’uomo che la dovrebbe sposare prima che muoia, ecc. ecc.
Ecco, ma è davvero tutto necessario? Fa tutto parte di una riflessione che si vorrebbe aperta e collettiva? Ci interessa davvero? Ci concerne? Intendiamoci, stiamo parlando di questo insano ed indigesto pasto mediatico, non di quanto scrive l’autrice di “Accabadora” sulla propria condizione; il fatto è che questa esperienza per certi versi “estrema”, posta in balìa dei meccanismi della comunicazione di massa, dalla stampa ai social, diventa solo materia di curiosità, ad effetto, un po’ morbosa, un po’ cinica, dentro il calderone delle “emozioni” che mai come in quest’epoca sono evocate ad ogni piè sospinto per definire qualsiasi sentimento, senza sondarne la profondità. Tutto in superficie, tutto rapidamente consumabile.
Questo, Michela Murgia lo sa. Si vede che le sta bene così. Prendiamone atto, con il massimo rispetto.
Nell’immagine: Michela Murgia in una fotografia di Alessio Jacona (Flickr)
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