Trent’anni dopo via d’Amelio
Per ricordare il giudice Paolo Borsellino, nel trentesimo anniversario della sua tragica scomparsa
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Per ricordare il giudice Paolo Borsellino, nel trentesimo anniversario della sua tragica scomparsa
Nel periodo elettorale i contributi di candidate e candidati sono benvenuti sulla nostra zattera secondo queste regole
57 giorni dopo toccò anche a lui. Dopo Giovanni Falcone, il giudice ucciso a Capaci in un terribile attentato che vide morire anche la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta, arrivò, quasi fosse inesorabilmente annunciato, anche il giorno dell’uccisione di Paolo Borsellino, il 19 luglio 1992, vittima di una strage in Via D’Amelio, a Palermo, che portò alla morte anche di cinque uomini della scorta armata.
Falcone e Borsellino: due nomi legati indissolubilmente dalla tenace guerra alla mafia, da un amicizia quasi fraterna e da una morte orribile per mano di quel potere occulto e perverso che hanno perseguito lungo il corso di tutta la loro tormentata e spesso contrastata attività di magistrati.
Due icone di una battaglia tutt’altro che vinta, ma che ha avuto in Falcone e Borsellino due esempi ancora ineguagliati di dedizione alla concezione di “servizio” verso la giustizia e lo Stato. Molte le pubblicazioni uscite in questo trentennio per ricordarli e rievocarne le personalità ed il ruolo decisivo per alcune storiche vittorie, allora, nella lotta contro la mafia.
Fra esse se ne segnala qui, per l’occasione, una di recentissima uscita e che, ancora una volta, accomuna i due magistrati all’insegna, come dice il titolo del volume, della loro natura di “Ostinati e contrari” (ed. Solferino, 2022)
Si tratta di un libro che raccoglie una serie di interventi pubblici di Falcone e Borsellino, introdotti da un saggio di Nando dalla Chiesa, sociologo e scrittore oltre che, come dimenticarlo, figlio di un’altra vittima “eccellente” della mafia, il generale Carlo Alberto dalla Chiesa.
In occasione, dunque, dei trent’anni dalla strage di Via D’Amelio, con cui si interruppe brutalmente la vita e l’incessante battaglia di Paolo Borsellino, proponiamo qui, estratto dal volume, un suo breve quanto intenso discorso tenuto in occasione della fiaccolata in onore di Giovanni Falcone svoltasi a Palermo il 20 giugno 1992.
Borsellino ricorda, con stima ed affetto, l’amico scomparso; quasi una sorta di “testamento morale” in nome dell’amico che avrebbe tristemente raggiunto poco meno di un mese dopo.
Per Falcone e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, l’amore verso Palermo ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era possibile dare con le nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene.
Lavorare a Palermo, da magistrato, e con questo intento, fu sempre, fin dall’inizio, nei propositi di Giovanni Falcone, anche durante le sue peregrinazioni professionali nell’est e nell’ovest della Sicilia. Qui era lo scopo della sua vita e qui si preparava ad arrivare per riuscire a cambiare qualcosa. Qui ci preparavamo ad arrivare e ci arrivammo dopo un lungo esilio provinciale proprio quando la forza mafiosa, a lungo trascurata e sottovalutata, esplodeva nella sua più terrificante potenza: morti ogni giorno, Basile, Costa, Chinnici, dalla Chiesa e tanti altri.
E qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo. E non solo nelle tecniche di indagine. Ma perché consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare nella stessa lunghezza d’onda del sentire di ognuno, di ogni cittadino. La lotta alla mafia, il primo problema morale da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti, specialmente le giovani generazioni, le più adatte, proprio perché meno appesantite dai condizionamenti e dai ragionamenti utilitaristici che fanno accettare la convivenza col male, le più adatte cioè, queste giovani generazioni, a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità.
Ricordo la felicità di Falcone, e di tutti noi che lo affiancavamo, quando, in un breve periodo di entusiasmo conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, egli mi disse: “La gente fa il tifo per noi”. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice – questa affermazione l’ha fatta anche il giudice Di Pietro a Milano – significava di più, significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro, stava anche smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la vera forza della mafia.
Questa stagione del “tifo per noi” sembrò durare poco, perché ben presto sopravvenne quasi il fastidio, l’insofferenza al prezzo che, per la lotta alla mafia, doveva essere pagato dalla cittadinanza.
Insofferenza alle scorte, insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini, insofferenza che finì per legittimare un garantismo di ritorno, che ha finito per legittimare a sua volta provvedimenti legislativi che hanno estremamente ostacolato la lotta alla mafia: il nuovo codice di procedura penale. Adesso hanno fornito un alibi, dolosamente spesso, colposamente ancor più spesso, a chi di lotta alla mafia non ha voluto o non ha più voluto occuparsi.
In questa situazione Falcone andò via da Palermo. Non fuggì, ma cercò di ricreare altrove le ottimali condizioni del suo lavoro. Venne accusato di essersi troppo avvicinato al potere politico. Non è vero! Pochi mesi di dipendenza al ministero non possono far dimenticare il suo lavoro di dieci anni. Lavorò incessantemente per rientrare in magistratura. In condizioni ottimali. Per fare il magistrato, indipendente come sempre lo era stato.
Morì, è morto insieme a sua moglie e agli agenti della scorta, e allora tutti si accorgono di quali dimensioni ha questa perdita. Anche coloro che per averlo denigrato, ostacolato e talora odiato, hanno perso il diritto di parlare! Nessuno, tuttavia ha perso il diritto, anzi il dovere sacrosanto, di continuare questa lotta.
La morte di Falcone e la reazione popolare che ne è seguita dimostrano che le coscienze si sono svegliate e possono svegliarsi ancora. Molti cittadini, ed è la prima volta che avviene, collaborano con la giustizia.
Il potere politico trova il coraggio di ammettere i suoi sbagli e cerca di correggerli, almeno in parte, almeno con la modifica di alcune norme paralizzanti del codice di procedura penale. Occorre evitare che si ritorni di nuovo indietro: occorre dare un senso a questa morte di Falcone, a questa morte di sua moglie, a questa morte degli uomini della sua scorta.
Sono morti tutti per noi, e abbiamo un grosso debito verso di loro e questo debito dobbiamo pagarlo, gioiosamente, continuando la loro opera: facendo il nostro dovere, rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici. Rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarre. Anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro. Collaborando con la giustizia, testimoniando i valori in cui crediamo, anche nelle aule di giustizia, accettando in pieno queste gravose e bellissime verità: dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo”.
Da G.Falcone – P.Borsellino, “Ostinati e contrari”, a c. di Nando dalla Chiesa, Melampo/Solferino, 2022, pp.208-211
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