Una voce che dice senza parlare, e ci interroga, fra un capriccio e l’altro (di Paganini)
“A una voce” di Sabina Zanini è un esordio letterario che lascia il segno
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“A una voce” di Sabina Zanini è un esordio letterario che lascia il segno
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“A una voce” di Sabina Zanini è un esordio letterario che lascia il segno
“Apro gli occhi su un mattino appena abbozzato. Le giornate cominciano sempre alla stessa ora ma la luce diurna si accende secondo il capriccio delle stagioni. Il tragitto della Terra prosegue incurante dell’alternarsi tra riposo e veglia. Che poi questo globo ospiti uomini o dinosauri è del tutto indifferente.” Si apre così, con gli occhi di chi parla, o piuttosto pensa, un libro davvero notevole, un esordio d’eccezione per una scrittrice, Sabina Zanini, che da quasi vent’anni è giornalista alla RSI ma che solo ora ha deciso di uscire allo scoperto come autrice letteraria con il bel libro “A una voce”, edito da Gabriele Capelli e già insignito di un premio, lo Studer/Ganz 2021, destinato proprio ad un’opera d’esordio.
E che esordio! Già lo si percepisce da quelle prime righe, i primi di molti pensieri che si sommano, affastellano, si susseguono, dal mattino a notte inoltrata, e che condensano la giornata dell’io narrante, in un costante interrogarsi sulla propria inadeguatezza verso un mondo di relazioni che paiono sfuggirgli, inafferrabili.
Un personaggio talmente difficile da classificare, talmente proteso verso una sorta di volontaria e rarefatta autosufficienza, che neanche si può dire se sia un protagonista o una protagonista. Insomma, lungo le centoventi pagine di “monologo interiore”, senza un solo dialogo, fra le tante magie di una scrittura sorvegliatissima, lavorando per sottrazione, l’autrice riesce addirittura ad evitare ogni possibile aggettivo o participio che del narratore qualifichino il sesso.
Il suo protagonista è, “semplicemente” (per modo di dire) un essere umano, che vive una vita normalissima, fra piccole necessità quotidiane, un lavoro presso un istituto di credito (dove svolge diligentemente i propri compiti non per passione o piacere, ma “per non farmi notare”, che non ha alcuna vita sociale se non quella di misurarsi silenziosamente con il mondo circostante, fatto di sguardi, di chiacchiere, di banalità, cercando di non interferire, di non farsi notare.
È una sorta di “ombra”, che si muove, se deve, per sfuggire all’attenzione altrui, e, a poco a poco, con un gesto, un passo, un pensiero, pagina dopo pagina, comincia misteriosamente a camminarci accanto e ad interpellarci.
Il suo monologo interiore è fatto di osservazioni furtive come di riflessioni filosofiche, in un alternarsi di stati d’animo che sono i nostri, frutto di quotidiani rovelli, di angosce anche, come ad esempio quelle relative al rapporto con una madre che, in un decorso terribile e crudamente rievocato della malattia, con la propria scomparsa lascia il personaggio definitivamente solo, di fronte allo scandalo del degrado fisico e della nostra finitezza, fatale e inesorabile.
Calato dentro il brusìo indistinto di un mondo cui non riesce o non si sente di appartenere, l’Io narrante di rifugia appena può dentro il suono prodotto dagli auricolari con cui ascolta, incessantemente (ma con programmatico rigore) la musica di Niccolò Paganini, in particolare i “Capricci”.
La passione per il violino e per la musica rappresentano così una sorta di antidoto verso il mondo e le sue cacofonie, cui non riesce (più) ad aderire, in cui non si sente di potersi riconoscere. Non è questione di ribellione, una prospettiva del tutto assente nel suo orizzonte, ma piuttosto di progressiva ed inesorabile introversione, che per il lettore fanno del personaggio, nel suo essere ineffabile, assente, una presenza fortissima.
Il suo aggirarsi fra i corridoi e gli uffici durante le ore di lavoro, la sua costante propensione a “scomparire” dietro le carte, i dossier, per non dare fastidio, per non creare (e crearsi) imbarazzo, ne fanno una figura da cui, infine, è difficile congedarsi. Ci accompagna, forse perché è dentro (e parte di) ciascuno di noi.
“Se riuscire a rimanere soli è un’arte, ho coltivato quest’arte ai massimi livelli. Alla fine ho eliminato ogni possibilità di intesa con i miei consimili. A cercarlo colpevolmente, si trova un motivo di delusione in chiunque. Un piccolo sgarbo, o una mancanza. Quindi il mio pensiero si avvita lì, in maniera deliberata, certo, in modo che non sia possibile perdonare. E non si frequenta chi non è stato perdonato. Semplice. Ma è altresì complicato trovare sempre lieviti freschi per far prosperare queste vecchie muffe.
Beninteso, non mi lamento se anche chi ho attorno coltiva lo stesso risentimento nevrotico nei miei confronti. Preferisco non destare interesse, è più sicuro. Le indagini accendono la curiosità e la necessità di avvicinarsi. No, grazie, ci ho messo una vita a raggiungere questo grado di rarefazione.”
“A una voce” è un libro che parla di solitudine, ma lo fa senza retorica, senza compiacimenti, pietismi o autocommiserazione. Quella voce, che tanto sola forse non è, ci parla e ci interroga sul nostro essere dentro un mondo in cui si fatica a specchiarsi e a riconoscersi; un mondo che si è spinti, non di rado, a rifiutare, ma in silenzio, fra le mura di casa, in una muta consapevolezza della nostra effimera e fugace esistenza.
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