Pierre Krähenbühl – ‘‘Vittima di Cassis”
L’onore perduto di Pierre Krähenbühl è una vicenda dolorosa e imbarazzante. Sullo sfondo della quale si muovono interessi geostrategici che fanno vacillare la tradizionale...
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È stato fino a al 6 novembre 2019, il rappresentante elvetico di più alto rango a livello mondiale. Quel giorno Pierre Krähenbühl, capo dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che si occupa degli oltre 5 milioni di rifugiati palestinesi, getta la sua spugna e si dimette. La pressione contro di lui era diventata insostenibile e si era sentito abbandonato da Berna. Un pre-rapporto consegnato al segretario generale dell’Onu Antonio Guterres un anno prima e del quale alcune fughe di notizie rivelavano i contorni, lo accusava di malversazioni, favoritismi, sperpero di denaro. Accuse gravi a tal punto che anche il Dfae di Ignazio Cassis decise di sospendere i finanziamenti all’Unrwa. Precedentemente a chiudere i rubinetti fu l’amministrazione americana, con in prima fila il genero di Trump Jared Kushner per il quale la stessa Unrwa costituiva non la soluzione ma il problema. Un concetto analogo fu espresso da Ignazio Cassis in un suo controverso viaggio ad Amman, sollevando dubbi sulla neutralità svizzera e polemiche da parte di chi lo considerava troppo vicino alle posizioni del governo Netanyahu e dell’amministrazione Trump. Sta di fatto che il rapporto di inchiesta definitivo consegnato al Segretario Generale delle Nazioni Unite lo scagiona dalle accuse più gravi, ritenendo contro di lui, stando alle rivelazioni di un’inchiesta della Rts, solo sospetti marginali. A “Laser” in un’intervista esclusiva Pierre Krähenbühl si confida, chiede giustizia, e racconta la sua verità in una vicenda dolorosa e dai contorni alquanto opachi.
Oltre un anno fa lei ha rassegnato nel dimissioni da uno dei posti più importanti delle Nazioni Unite, un clima di polemiche e amarezza. È riuscito a voltare pagina?
Da una parte c’è sempre il desidero di chiarimenti dopo avvenimenti così intensi, dopo anni di lavoro svolto con passione all’Unrwa e con il quale ancora oggi ho un rapporto carico di emozioni. È stata per me una delle più belle esperienze in assoluto, in particolare nel campo dell’educazione. 500mila allievi in 700 scuole da Aleppo nel nord della Siria fino a Gaza. Al tempo stesso devo procedere, guardare avanti, non ci si può lasciar definire solo da un avvenimento seppur forte che mi ha portato a rassegnare le dimissioni. Bisogna saper voltare pagina
In piena bufera sulle sue presunte malversazioni, il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres le ha proposto di prendere un congedo amministrativo, ma lei ha rifiutato e gettato la spugna. Perché?
Perché eravamo nel contesto di un’inchiesta che andava avanti da parecchio tempo. Il segretario generale Guterres mi ha confermato che le accuse di malversazioni, frode, corruzione, di cattiva gestione dei fondi dei donatori, oltre alla vicenda della presunta relazione sentimentale e del relativo conflitto di interessi, erano state scartate e cadute nel vuoto. Rimanevano da chiarire solo un paio di questioni legate a delle assunzioni. Proprio nel momento in cui le accuse cadono nel vuoto e che rimane da chiarire un 2% ti viene chiesto di farti da parte per un congedo amministrativo. La cosa mi sembrava poco coerente e d’altro canto desideravo riprendermi un po’ di libertà di parola. Ho voluto creare uno choc psicologico ed è quanto successo
Il rapporto definitivo che la scagiona dalle principali accuse è stato consegna a Berna ed è rimasto apparentemente in un cassetto. Perché secondo lei?
Da quanto ne so, la posizione del Dfae è che siccome si tratta di una procedura avviata dall’Onu, sta alle Nazione Unite concluderla. Formalmente non lo contesto, mi sembra abbastanza corretto. Oggi, nella situazione in cui ci troviamo, dopo aver visto che le accuse erano prive di sostanza e che rimanevo un paio di punti da chiarire, mi aspetto che sia in primis New York a chiudere la procedura, che l’Onu affermi che le accuse mosse nei miei confronti non hanno trovato alcun riscontro, e che giunga così alle giuste conclusioni. Sarebbe certamente positivo se la Svizzera appoggiasse questa procedura, una cosa del tutto fattibile. Va bene che il mio paese dica “non sta a noi trarre le conclusioni dal rapporto” , ma potrebbe comunque chiedere all’Onu di farlo. Sarebbe nell’interesse di tutti .
E perché l’Onu non lo fa secondo lei?
La posizione delle Nazioni Unite è stata quella di dire che siccome avevo rassegnato le dimissioni, si sospendeva la procedura. Ma credo che considerando i contenuti del rapporto sarebbe anche nel loro interesse giungere alle conclusioni e pubblicarle.
Perché secondo lei la Svizzera, il suo paese, è stato il primo o tra i primi a sospendere i finanziamenti all’Unrwa quando le sono state mosse le prime accuse? Lei si è sentito tradito, pugnalato alla schiena?
Vede è stato deludente vedere il tuo proprio paese essere il primo ad adottare una tale misura. Uno può aspettarsi sostegno in un momento così o perlomeno un atteggiamento a difesa della presunzione d’innocenza. La Svizzera mi aveva sempre enormemente sostenuto e aveva sostenuto l’Unrwa fino al cambiamento di politica che si è prodotto con l’arrivo al Dfae di un nuovo Consigliere Federale. E’ vero che la Svizzera aveva sospeso solo un parte del finanziamento, due milioni, ma è stata la prima a farlo ed è stato un segnale che mi è spiaciuto molto. Posso benissimo capire che il tipo di accuse che mi erano state mosse potesse porre degli interrogativi sul mio agire, lo capisco perfettamente. Ma nel diritto c’è un principio cardine che è la presunzione di innocenza. Con le misure prese da Berna, si è data l’impressione che questo principio non fosse stato applicato e che si pregiudicava il risultato dell’inchiesta. Per me è stata estremamente dura, e sul perché la Svizzera ha agito così, beh su questo dovrebbe esprimersi il Dipartimento degli Affari esteri
Nel maggio del 2018, prima della bufera, lei aveva incontrato Ignazio Cassis ad Amman. Qualche ora dopo Il Consigliere Federale fece una dichiarazione sul fatto che l’Unrwa poteva far parte del problema e non della soluzione, che suscitò discussioni e polemiche. Una dichiarazione simile era uscita precedentemente dalla bocca di Jared Kushner, genero del presidente Trump e suo rappresentate per il Medio Oriente… Cosa vi eravate detti?
Si sapeva che il Consigliere Federale arrivava con un’idea un po’ diversa, rispetto ai suoi predecessori sul conflitto tra Israele e la Palestina. Il che è normale, ci sono ovunque ministri più vicini a Israele o più vicini ai palestinesi. La visita si è svolta bene, il Consigliere Federale ha incontrato degli studenti dell’Unrwa, tutto è andato bene, lui era molto interessato. Poi abbiamo avuto un colloquio bilaterale, non ci sono stati problemi, ci siamo presentati, abbiamo scambiato i nostri punti di vista, avevamo tutti l’impressione che la visita si fosse svolta in modo positivo. La sorpresa è stata al ritorno da Amman quando si è posta la questione se l’Unrwa piuttosto che della soluzione non facesse in realtà parte del problema. E in effetti è la stessa formulazione che sei mesi prima aveva utilizzata Jared Kushner in un colloquio alla Casa Bianca.
Come dire che Cassis aveva posizioni analoghe all’amministrazione Trump e di riflesso al governo Netanyahu…
Questa è la percezione che si è diffusa. Guardi io con Cassis non ne ho mai fatto una questione personale. Il meglio sarebbe di trovarsi, di andare a bere un caffè assieme. Dalle mie dimissioni non ci siamo mai sentiti. Io sono abituato a muovermi in ambienti estremamente polarizzati con persone che hanno anche idee molto diverse. Si può costruire qualcosa anche con interlocutori che hanno idee molto dissimili, come con gli israeliani o gli americani ad esempio con i quali ho sempre avuto un dialogo franco. Quando Ignazio Cassis aveva pronunciato quella frase, nel maggio del 2018, eravamo proprio nel cuore della nostra strategia di colmare i tagli enormi degli americani , 367 milioni di dollari. Eravamo tutti concentrati nel tentare di mobilitare il numero maggiore di persone attorno all’Unrwa. E quella frase per noi non è stata naturalmente facile da digerire. Detto questo vorrei sottolineare che dopo la Svizzera ha mantenuto i suoi impegni finanziari ed è stata anche tra i 43 paesi che hanno poi aumentato il loro contributo consentendoci di farcela in quell’anno.
Al centro degli attacchi c’erano da una parte l’Unrwa e dall’altra lei. In questo caso era un attacco alla sua persona anche dall’interno dell’Organizzazione…
È normale quando si dirige un’organizzazione di quelle dimensioni che i donatori si pongano delle domande sul mondo in cui l’organizzazione è gestita. E nel caso dell’Unrwa che esiste da 70 anni, 70 anni perché non c’è stata una soluzione politica, hanno particolari esigenze. Ed è assolutamente normale. In 5 anni la squadra che dirigevo aveva ridotto i costi strutturali di 490 milioni di dollari nell’arco di 5 anni. Un piano di risparmio estremamente ambizioso che dimostra quanto sul serio abbiamo considerato le richieste . Ma se tagli 490 milioni e quando nel 2018 devi ridurre il budget di altri 92 milioni a causa del debito, è ovvio che crei delle tensioni: programmi che vengono tagliati, colleghi che perdono il posto di lavoro.
Ma lei non ha nulla da rimproverarsi? Il fatto per esempio che ha lavorato sempre fianco a fianco con la sua consigliera Maria Mohammedi? Certo la relazione sentimentale è stata smentita dall’inchiesta però questo legame professionale costante ha potuto creare divisioni e tensioni, non crede?
Quando all’inizio dell’anno 2018 devi far fronte a un deficit e a tagli da parte degli americani , in tutto 538 milioni di deficit su un bilancio annuale di 1 miliardo 200milioni, nessuno pensa veramente che l’organizzazione ce la farà a sopravvivere. E l’intenzione americana era proprio quella di non farci sopravvivere. In un momento così cosa fai? Centralizzi le decisioni perché non puoi andare da ognuno a chiedere se è d’accordo con i tagli nel suo settore. Dovevo prendere delle decisioni difficili ed era possibile farlo solo in un gruppo ristretto. Il mio rimpianto non è tanto legato al fatto che una decina di collaboratori internazionali hanno contestato le mie decisioni, anche se alcune come l’assunzione del marito della mia vice Sandra Mitchell potevano in effetti essere considerate inopportune anche se non violavano nessuna regola- in questo caso ho dunque sbagliato- . Il mio rimpianto più profondo è di non essere riuscito a salvare tutti i posti di lavoro dei palestinesi. Ne abbiamo salvato il 98%. Ma in Palestina quando perdi un lavoro, non ne trovi un altro. Una realtà crudele. A Gaza i 118 che hanno perso il lavoro sono nella disperazione, è un dolore che continua. Sa, quando si è a capo di 30mila dipendenti, errori di gestione se ne fanno. Ma corruzione, frode, cattiva gestione dei fondi dei donatori sono accuse che non ho mai accettato e l’inchiesta ci ha dato ragione.
Non c’è stato sperpero di soldi neanche nei viaggi con Maria Mohammedi? Ma erano davvero indispensabili per raccogliere i fondi supplementari in diversi paese e colmare il deficit
Sì erano indispensabili . E vede agli inquirenti abbiamo presentato la documentazione per ogni viaggio, con i nomi delle personalità che abbiamo incontrato. E’ nata anche una polemica sul fatto che ho viaggiato in Business Class. La prima cosa che vorrei dire che nelle Nazioni unite al mio livello gerarchico, questa è la regola. Può piacere o no, ma è la regola. Ma nel 50% dei casi, ho io stesso deciso di viaggiare in classe economica. Così come lo faceva il mio predecessore Filippo Grandi. Per lui e per me è un modo per risparmiare soldi. Dunque non solo non ci sono stati abusi, ma è avvenuto proprio il contrario. Si è dunque trattato di accuse menzognere. E le cose sono ora definitivamente chiarite.
Nel maggio del 2019 Ignazio Cassis incontrata il ministro degli esteri israeliano Israel Katz e secondo quest’ultimo il Consigliere Federale si è dimostrato molto sensibile alla posizione del governo israeliano sull’Unrwa che Israele di fatto vorrebbe sopprimere. Che riflessioni fa lei personalmente?
Alla fine del primo anno dell’amministrazione Trump, nel 2017, quando il presidente riconosce Gerusalemme come capitale dello stato ebraico, capiamo subito che ci sarebbe stato un rischio abbastanza immediato per l’Unrwa. Gli Stati Uniti tagliano tutti i fondi ai palestinesi compresi quelli per l’Unrwa. Il tutto lo avevo interpretato come la volontà di rimettere in discussione lo statuto definitivo della questione palestinese definito a Oslo su Gerusalemme e sulla questione dei rifugiati. Non c’era dubbio che ci trovavamo di fronte a una nuova strategia. Una strategia americana che interagisce con quella israeliana. L’Unrwa è un ricordo costante che la questione dei rifugiati non è risolta e questo crea da sempre tensioni sia in Israele sia in alcuni parlamenti europei. Allora sulla Svizzera non faccio speculazioni, è meglio chiedere ai diretti interessati.
Ma secondo lei la posizione assunta da Cassis rimette in discussione la nostra neutralità?
Diciamo che in Medio Oriente la domanda mi è stata posta proprio in questi termini:” non riconosciamo più il modo con il quale il suo paese operava in questo contesto”. Diciamo che all’indomani della frase di Ignazio Cassi sul fatto che l’Unrwa faceva parte più del problema che non della soluzione, il Consiglio Federale aveva corretto il tiro dicendo che la politica della Confederazione non era cambiata. E neanche l’appoggio all’Unrwa come poi confermato dai fatti, ed è una buona cosa. Ho dunque segnalato nella regione che la posizione della Svizzera, nei suoi fondamenti, non era mutata. Ma la percezione in Medio Oriente era proprio quella a cui lei si è riferito nella sua domanda.
Lei ha chiaramente la sensazione di essere stato abbandonato dal suo ministro di riferimento, il capo del DFA. Quando si ha una posizione come la sua, commissario Unrwa e sottosegretario delle Nazioni Unite, dunque proprio sotto il segretario generale Guterres, cosa si prova in quei frangenti? È stata dura?
Sì è stata dura. Dura perché mi ero impegnato con molta passione e determinazione su un dossier tanto difficile. Sapevo benissimo di dover agire in un contesto di forte polarizzazione come quello tra Israele e la Palestina. La situazione si è di fatto ancor più polarizzata con l’arrivo dell’amministrazione Trump. E allora cosa fate? cercate di riunire un numero massimo di paesi al mondo per sostenere la vostra organizzazione. E il fatto che il tuo stesso ministro si esprima in quei termini sull’organizzazione che dirigi, in quel momento e con quelle modalità, è stato molto difficile da vivere. È ovvio che lo si percepisca come la mancanza di sostegno da parte del tuo stesso paese. Però ci tengo a ricordare che fino a quel momento il sostegno che mi ha garantito la Svizzera è stato notevole. C’è in modo evidente per per me, un prima e un dopo.
Ma è stato abbandonato anche dall’Onu ci par di capire…
Allora diciamo che è l’Onu che conduce l’inchiesta. Il segretario generale riceve un rapporto molto critico sulla nostra gestione. E deve trasmetterlo all’ufficio preposto alle inchieste. Questo è del tutto normale. Ciò che è deludente è che alla fine delle procedure di verifica, mi si comunica che il 98% delle accuse sono prive di fondamento. E si rimane lì. Non c’è una conclusione politica, un atto che certifichi formalmente quanto contenuto nel rapporto. Ed questo non lo considero corretto. Ed è per questa ragione che ho rassegnato le dimissioni. Quando sei confrontato a accuse tanto gravi e che queste accuse vengono smentite, e che si lasciano trascinare un paio di questioni solo per mantenerti in una situazione sospesa, ecco allora che non puoi che considerare che vi sia stata scorrettezza da parte del sistema. Le ragioni alla base di questa situazione non le conosco, non voglio speculare, ma credo che le pressioni di alcuni stati e in particolare degli Stati Uniti durante all’amministrazione Trump abbiano svolto un ruolo.
Il rapporto l’ha scagionata. Cosa si aspetta oggi concretamente dal governo svizzero. Al momento vi è un grande silenzio…
C’è un dibattito sul fatto che la Svizzera debba o no pubblicare il rapporto. Per me l’importante è che a New York l’Onu si proceda con un atto conclusivo e ufficiale , per esempio una lettera nella quale si dica “considerando il dossier, siamo giunti alla fine della procedura, confermiamo che tutte le seguenti accuse sono state scartate , le conclusioni dell’inchiesta hanno detto A-B-C e ora dunque abbiamo deciso di chiudere l’incarto. Dalla Svizzera mi aspetto che possa appoggiare una tale richiesta. Sarebbe non solo elegante ma nell’ interesse di tutti.
Per tornare all’Unrwa Israele accusa l’organizzazione di promuovere per esempio attraverso i manuali scolatici l’odio nei confronti dello Stato Ebraico e pure di un atteggiamento compiacente nei confronti degli islamisti di Hamas. Solo illazioni senza fondamento?
Prendiamo il caso dei manuali scolastici. L’accordo con tutte le parti, compresi i paesi donatori, è che l’Unrwa utilizzi i manuali pubblicati dalle autorità locali in modo da consentire agli allievi di continuare gli studi nelle scuole del governo. In Palestina i manuali sono preparati in base al curriculum pensato dall’autorità palestinese. E’ vero, e può capitare- ma l’Unrwa ha un sistema di controllo- che ci possa essere un contenuto politico inappropriato. Come la pubblicazione di vecchie mappe in cui non appare Israele. Ogni anno, quando vengono stampati i manuali, l’Unrwa verifica le migliaia di pagine dei manuali. E se ci sono problemi di questa natura, si va – e io l’ho fatto personalmente- dalle autorità palestinesi e al ministro dell’educazione competente si segnala che tale o tal altra pagina non vanno bene e che non saranno utilizzate nelle scuole dell’Unrwa perché violerebbero il dovere di neutralità dell’Onu. Vorrei suggerire a chi si occupa di queste questioni, di interessarsi anche ai manuali scolastici di altri paesi, compresa Israele. In situazione di conflitto troverete facilmente appunti non proprio positivi sulla controparte.
E la questione di Hamas?
È un’accusa ricorrente da parte di Israele contro l’Unrwa. Nel 2017 abbiamo saputo che due persone assunte dall’Unrwa erano state elette in funzioni direttive di Hamas. Abbiamo verificato e io stesso ho mandato una lettere di licenziamento ai due nostri impiegati. E guardi che in una situazione di conflitto prendere decisioni del genere è particolarmente delicato. Ma lo abbiamo sempre fatto: quando abbiamo scoperto sotto due nostre scuole a Gaza che erano stati scavati delle gallerie, abbiamo non solo denunciato pubblicamente Hamas ma abbiamo iniettato cemento negli stessi tunnel . Cosa non scontata considerando che facendo così ti assumi dei rischi. Siamo stati sempre molto rigorosi, eravamo ben coscienti di essere costantemente esposti a questo tipo di critiche così come al rischio di essere manipolati da attori locali.
Cosa le rimane in termini umani degli anni trascorsi all’Unrwa, dove ha conosciuto molte persone, molte famiglie, tanti drammi e tragedie
Ci sono delle immagini che non ti abbandonano mai. Le immagini più forti sono quelle di Gaza e della Siria dove ci sono palestinesi di seconda o terza generazione, famiglie fuggite dalla Palestina nel 1948 o 1967 e che si erano installate in campi profughi come quello di Jarmuk a Damasco. Lì i palestinesi devono ancora oggi subire il trauma della guerra , di un ulteriore spostamento, della perdita di amici, conoscenti, della distruzione delle loro case o negozi. È terribile. E a Gaza una popolazione che non ha orizzonti geografici, fisici. Che è lì senza futuro, che vive situazioni di conflitto tra Hamas o altri gruppi e Israele. I ricordi più belli sono quelli degli incontri con gli allievi e delle nostre scuole ragazze e ragazzi da 6 a 16 anni. Abbiamo creato dei parlamenti locali di allievi, e un parlamento centrale con 22 allievi che rappresentano il Libano, la Siria, la Cisgiordania o Gaza. Vede spesso questi parlamenti eleggono delle ragazza di 13-14 o 15 anni e che dunque rappresentano molti altri allievi, nel caso di Gaza una ragazza eletta da 280 mila ragazzi. Non corrisponde certamente all’immagine che troppo spesso in Europa ci si fa di chi vive a Gaza. In Europa si è o filo Israeliani o filo Palestinesi. Questa polarizzazione allontana, non unisce. Una delle cose più urgenti oggi è di aiutare israeliani e palestinesi a scoprire l’umanità dell’altro.
Mi è capitato di discutere con arabi dicendo loro che se non capivano la Shoà non potevano capire l’umanità che c’è negli Israeliani, ma allo stesso modo gli Israeliani che non vogliono saperne di riconoscere la Naqba, l’esilio dei Palestinesi , non capiscono la loro umanità e dignità. I prezzo di questo conflitto infinito è estremamente elevato
Ma l’Unrwa non potrebbe far pressione sui palestinesi affinché riconoscano lo Stato ebraico, perché malgrado gli accordi di Oslo quello rimane un problema?
Negli accordi di Oslo l’Olp ha riconosciuto il diritto all’esistenza di Israele.
Sì ma tra la popolazione questo non è così chiaro…
Non sono certo che si possa formulare la questione in quel modo. Certo ci sono persone che non riconoscono Israele ma Israele esiste e ha il diritto di esistere ed ha pure delle responsabilità. In particolare nei confronti della popolazione che vive sotto sua occupazione. Ci sono cose da dire ai palestinesi ma anche agli israeliani. E oggigiorno spesso di esita a farlo, per esempio quando delle case sono distrutte, delle persone detenute, dei bimbi maltrattati nei check point. Tutto questo lascia delle tracce non solo tra i palestinesi ma, ne sono certo, anche tra i soldati israeliani. Uno dei maggiori problemi è costituito dal disimpegno internazionale: non basta l’intervento umanitario, ci vuole volontà politica per trovare una soluzione e credo che nel suo piccolo la Svizzera potrebbe svolgere un ruolo, seppur modesto, facendo da passerella tra le parti, creando dialogo, e non diventare un ulteriore attore della polarizzazione
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