Yellowstone – Tra neo western e soap opera
A partire dal 21 novembre, la quarta stagione in prima visione su RSI LA1 - Di Davide Staffiero
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A partire dal 21 novembre, la quarta stagione in prima visione su RSI LA1 - Di Davide Staffiero
Da zero e di suo pugno, lo sceneggiatore texano – oggi tra i più attivi del piccolo schermo – ha dato vita a un universo inedito, coerente e di straordinario successo. Perché piaccia o meno, nel contesto della tv contemporanea, l’ecosistema “Yellowstone” non conosce eguali, sia in termini di estensione (cinque stagioni della serie madre, uno spin-off in corso e altri due ai blocchi di partenza) che di gradimento (il debutto di “Game of Thrones” e “The Walking Dead”, per citare altri due campioni di ascolto, risale ormai a più di dieci anni fa, su stimolo e traino – appunto – di proprietà intellettuali preesistenti con una loro fedele fanbase).
Trasferitosi a Los Angeles con l’intento di fare l’attore, Sheridan ha realizzato presto che la sua carriera di fronte alla macchina da presa non era destinata a decollare verso le altezze sperate (un ruolo ricorrente come sceriffo in “Sons of Anarchy”, i più attenti lo ricorderanno forse in “Veronica Mars”, ma a conti fatti nessun credito di effettivo rilievo). Così il nostro si è rimboccato le maniche e si è seduto alla tastiera. Ebbene, salta fuori che il ragazzo sa scrivere, sa scrivere eccome. Basti pensare che la sua opera prima (!) è nientemeno che quel gioiellino nichilista di “Sicario”, portato sullo schermo da Villeneuve nel 2015 e a cui faranno seguito, nel contesto di una trilogia ideale, il buon “Hell or High Water” e l’ottimo “I segreti di Wind River”.
Il trittico soddisfa critica e botteghino, tant’è che l’ex attore entra di diritto nel mirino degli studios e nel 2018 debutta sul neonato Paramount Channel con una serie che porta interamente la sua firma. La risposta del pubblico è positiva ma non immediata e sarà solo grazie a un lento crescendo che “Yellowstone” raggiungerà le dimensioni di un fenomeno impossibile da ignorare. Successo in larga parte meritato, le cui ragioni hanno però radici più profonde di quanto non possa a prima vista sembrare.
“Yellowstone” rilegge in chiave contemporanea il più americano e fuori moda dei generi, ovvero il western (modello rappresentativo con cui Sheridan ha flirtato fin dal principio senza mai dichiararsi apertamente). Al di là della facciata – praterie, ranch, cowboy, cavalli – è a livello strettamente tematico che l’autore si riallaccia ai miti fondativi di un passato inevitabilmente scomodo, ma marchiato a fuoco nel DNA dell’entertainment a stelle e strisce. Il tema della frontiera (intesa come confine, orizzonte, delimitazione territoriale) è del resto il fulcro attorno al quale già ruotava la quasi totalità della sua produzione filmica. Un mito in cui abbondano le zone d’ombra, che è tuttavia parte inscindibile di una Storia scritta col sangue e che dal Nuovo Mondo si trascina tutto un corollario ideologico ancora oggi saldamente, drammaticamente, americano: la sacralità del nucleo familiare, la difesa (all’occorrenza armata) della proprietà privata, la giustizia fai da te. Se suona come un sistema di valori repubblicano (per non dire reazionaro) è perché, inutile negarlo, lo è. Come d’altronde sarebbe inutile negare che una fetta significativa dell’identità statunitense, penetrata alle nostre latitudini tramite l’industria culturale, si sia modellata proprio attorno a questi concetti, in una Weltanschauung perennemente sospesa tra individualismo e imperialismo.
Sheridan non ripudia la natura conservatrice del western americano. Anzi, la cavalca, adeguandola e riplasmandola su uno sfondo squisitamente contemporaneo. Una rilettura che non a caso comincia proprio dalla comunità dei nativi, ritratta con un’autenticità – anche qui, non priva di lati oscuri – che su piccolo schermo era ancora da venire (serie come “Reservation Dogs” o “Dark Winds” riceveranno luce verde solo qualche anno dopo). Nel western di oggi, non occorre dunque guardarsi dagli indiani, ma dagli speculatori edilizi; il bandito non è chi rapina le banche, ma il banchiere stesso; al posto di assalti a treni o diligenze, private equity di dubbia moralità e hostile takeover. Nel Montana del terzo millennio, di conseguenza, l’arma migliore non è più (soltanto) il piombo, ma la politica, il potere e – in ultima analisi – il denaro. Difendersi però rimane un must, sempre e a qualunque costo, poiché come insegna la tradizione della frontiera, c’è sempre qualcuno pronto a portarti via ciò che è tuo.
In questo senso, quello proposto da Sheridan è neo western allo stato puro, saldamente ancorato alla realtà geopolitica attuale e capace di far rivivere in essa gli intramontabili tòpoi che antecedono lo stesso Cinema delle origini. Tra i tanti archetipi, vale la pena citare il Cavaliere Solitario, che trova in un resuscitato Kevin Costner il suo interprete ideale (taciturno, tormentato, eroe magnetico e centro di gravità attorno al quale ruotano le vicende). Il riscatto di vecchie glorie cadute in disgrazia è un valore aggiunto che in sala ha già regalato enormi soddisfazioni (il Travolta di “Pulp Fiction”, il Rourke di “The Wrestler”), ma ancora più significativo è il fatto che in “Yellowstone”, a uscire dal coma artistico post anni 90, sia proprio un’icona assoluta del genere in questione (indimenticato protagonista di “Silverado”, “Open Range”, “Wyatt Earp” e, naturalmente, “Balla coi lupi”).
Se il nocciolo è neo western, dal punto di vista strutturale la serie non esita a sporcarsi le mani con un altro modello caro alla narrativa televisiva made in Usa, vale a dire la soap opera. Quella dei Dutton è infatti una saga familiare in piena regola, che rispetta le figure e i rituali canonici del genere: il patriarca, gli eredi al trono (tutti in qualche modo inadeguati e in contrasto tra loro), i segreti, i ricatti, le alleanze, i tradimenti, le faide. Insomma, il buon vecchio adagio “anche i ricchi piangono”, declinato in un intrico senza soluzione col suo bravo ventaglio di colpi di scena e occasionali inverosimiglianze, ma anche indurito da una tendenza a farsi vieppiù crepuscolare col procedere delle stagioni, in un tono che dal melodramma sconfina presto nel noir.
Per quanto altamente codificato, il western è d’altro canto un genere mutevole, che già in passato ha dimostrato di sapersi evolvere e adattare, individuando nuovi percorsi quando non operando vere e proprie inversioni di rotta: dai classici di John Ford a quelli di Sergio Leone, dallo spaghetti western di Corbucci a quello sociale di Sollima, passando per la corrente revisionista di “Piccolo grande uomo” e “Soldato blu”, fino ad arrivare a quel magistrale, lancinante epitaffio che “Gli Spietati” sembrava aver inciso sull’intero filone. E in effetti, negli ultimi vent’anni, non è che il genere se la sia passata granché bene. Pur essendosi presentato spesso sotto mentite spoglie, contaminato con le influenze più disparate (fantascienza, action, horror,…), un western puro capace di lasciare il segno non lo si vedeva da tempo (salvo poche, nobili eccezioni: “Deadwood” in tv, ma erano gli albori del prodotto premium e il telespettatore medio non era ancora pronto; “Django Unchained” e “The Hateful Eight” al cinema, ma in quanto frullatore di generi, Tarantino è un discorso a parte). A rianimare un paradigma semi-agonizzante, a ripulirlo senza snaturarlo e a renderlo appetibile ai palinsesti di mezzo mondo, ci ha pensato la penna affilata di Sheridan. Ed è grazie a lui se oggi il (neo) western è tornato a essere un genere à la page, come dimostra la pletora di epigoni prontamente inseritasi sulla sua scia (il già citato “Dark Winds”, il reboot di “Walker Texas Ranger”, “Outer Range”, “That Dirty Black Bag”, “Billy the Kid” l’imminente revival di “Justified” e il futuro “Unbroken”). In seno a un’industria che la streaming war ha reso più bulimica che mai, la parola d’ordine, come si diceva in apertura, è sempre la stessa: riciclo.
Al pari del ranch eponimo, “Yellowstone” fa ormai impero a sé. Con le sue regole, le sue frontiere, i suoi pregi e i suoi difetti. Le redini del tutto rimangono salde nelle mani di una sola persona, che come John Dutton, sul proprio territorio mantiene un controllo senza precedenti. Caso più unico che raro, Sheridan firma infatti tutti gli episodi e chissà come, trova persino il tempo per occuparsi di altro (“Mayor of Kingstown”, “Tulsa King”, il reality “The Last Cowboy” e almeno altri tre progetti attualmente in development; mentre fuori dallo schermo, sempre a proposito di autenticità, possiede e gestisce due ranch nei dintorni di Dallas).
Come si dice in questi casi: chapeau. Rigorosamente a tesa larga.
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