Mikhail Gorbaciov, il comunista eroe a Ovest traditore in Russia

Mikhail Gorbaciov, il comunista eroe a Ovest traditore in Russia

Avrebbe voluto fermare Putin, ma se ne è andato mentre il suo successore tenta di cancellare ogni suo lascito


Aldo Sofia
Aldo Sofia
Mikhail Gorbaciov, il comunista eroe a Ovest...

In tarda età affermò che, dopo essere stato immerso nell’opprimente atmosfera degli ultimi anni staliniani, “proprio la lettura di Marx e Lenin aveva rappresentato un’esperienza liberatoria e una lezione di analisi storica”.

In effetti, Mikhail Sergheevic Gorbaciov non rinnegò mai il comunismo sovietico, che comunque ne aveva garantito l’istruzione fino agli studi universitari, e di cui prese la guida nella primavera nel marzo 1985. Del resto non sarebbe mai arrivato sotto la torre Spasskaia del Cremlino se a sceglierlo non fosse stata la mummificata gerontocrazia (gli Andropov, i Cernenko, i Suslov, i Gromyko) che, tra un funerale e l’altro, lo aiutarono nella scalata al potere supremo, convinti che quel ‘giovane dai denti d’acciaio’, come disse uno di loro, avrebbe potuto rimediare all’inarrestabile declino economico e sociale della superpotenza bolscevica, la massima potenza nucleare dell’epoca, impantanata nell’invincibile guerra d’Afghanistan, ultima anticamera prima del definitivo collasso dell’Urss. Di cui ‘Gorby’ fu al tempo stesso l’ingenuo riformatore ma anche l’involontario rottamatore.

Non è vero che glasnost e perestrojka, trasparenza e ristrutturazione, fossero solo slogan rimasti nel cassetto delle illusioni e dell’ingenuità del loro ideatore. Realizzò la prima, la trasparenza, e fu uno tsunami, un’onda d’urto alta, violenta, devastante anche per la corazza apparentemente impenetrabile e inviolabile dello Stato, del partito unico, della dittatura ormai da molto tempo non più ‘dei lavoratori’: la stampa di regime fu spinta a occuparsi di temi fino ad allora tabù (contemporanei o di natura storica che fossero); gli intellettuali vennero incoraggiati a esprimersi liberamente dopo decenni di pesante censura; arrivarono nelle sale – affollatissime – film di denuncia tenuti nascosti al pubblico; nelle librerie approdò finalmente anche ‘Arcipelago Gulag’ di Solzenicyn, il grande atto d’accusa del sistema sovietico, contro lo stalinismo ma anche contro Lenin; il settimanale “Argomenti e Fatti”, nato alla fine degli Anni Settanta, trattò argomenti mai affrontati dalla stampa di regime, e raggiunse una tiratura di 30 milioni di copie. Arrivò la catastrofe nucleare di Cernobyl, che fra l’altro evidenziò quanto la politica della segretezza fosse pericolosa e insostenibile, e dopo le ridicole smentite iniziali dei funzionari sovietici, fu in sostanza la ‘glasnost’ a imporre un cambiamento di rotta.

“Di quest’uomo di ci può fidare”, fu il giudizio della Thatcher dopo il primo incontro a Londra con Mikhail Sergheevic. E furono le parole che sdoganarono in tutto l’Occidente il rinnovatore che al di qua della cortina di ferro diventò popolarissimo, che aprì ad Europa e America come nessun altro dirigente sovietico prima di lui, che capì l’insensatezza e l’impossibilità di inseguire gli Stati Uniti nel programma di riarmo anche stellare, che ordinò il ritiro da Kabul, che con Reagan (il quale per primo aveva definito l’Urss ‘impero del male’) trovò l’intesa per l’accordo sugli euromissili, che poi auspicò persino un processo di denuclearizzazione del mondo intero da realizzarsi in un paio di decenni; che andò a Berlino Est per dirgli ‘senza riforme sarai punito dalla Storia’ (premessa al crollo del Muro); e che al suo paese annunciava la possibilità di confronti elettorali in cui coinvolgere forze della società non allineate, che parlava di ‘casa comune europea’.

Cosa allora non funzionò? Su quale binario e su quale ostacolo andò a sbattere e si frantumò la locomotiva del cambiamento? Fu su quello della perestrojka, della ‘ristrutturazione’ soprattutto economica. Dove fra l’altro non mancarono certo novità anche di portata storica, come la concessione e il varo delle prime forme di piccola proprietà privata. Ma dove, in un perenne gioco di equilibrismo, tutto rimase a metà strada: in una via di mezzo fra capitalismo e comunismo sovietico che si trasformò in accidentato sentiero, senza sbocchi. E che oltretutto cadde in una fase di transizione resa ancor più difficile per le casse pubbliche dalla forte caduta del prezzo del petrolio. Lo storico di origine russa Stephen Kotkin riassume il dramma gorbacioviano sottolineando le “ripetute contraddizioni che accompagnarono il tentativo di alimentare l’auto-riforma dell’economia pianificata, sforzo degno di Sisifo, senza rinunciare né alla pianificazione né al socialismo”. Uno ‘stop and go’ con cui il segretario generale tentava di tenere a bada e addomesticare i centri operativi ultra-conservatori, che vedevano sempre più minacciata la loro posizione di potere e non tanto la loro ideologia: nel partito, nell’alta e piccola burocrazia, nel corpaccione dei servizi segreti, nell’esercito. Quasi a confermare che si tratta di un sistema non riformabile; che è solo ingenuità il sogno di un ‘socialismo dal volto (più) umano’; e anche che, per una miriade di ragioni, l’Urss di ieri e la Russia putiniana di oggi non possono essere la Cina, nel suo mix di pugno di ferro politico e progresso economico.

Abituati al poco (o pochissimo), ma a un poco garantito (lavoro e casa), i russi entrarono nella grande disillusione, la produzione crollava, la crisi economica mordeva, i negozi riproponevano le scene di lunghe file e mancanza di prodotti sugli scaffali come ai tempi peggiori. Tutto il resto seguì precipitosamente. Fino al duello finale con Eltsin, che, nel nome della democrazia e contro il tentato golpe tardo-comunista, di fronte al parlamento preso a cannonate arringava la folla salendo su un carrarmato; e che davanti alle telecamere, col dito minaccioso puntato verso il petto del rivale, gli ordinava di firmare il decreto che doveva mettere fine all’Unione Sovietica, senza idee chiare sulla futura traiettoria da seguire. Fu Eltsin, non Gorbaciov, a piantare l’ultimo chiodo sulla bara dell’Urss; ma fu l’uomo della ‘perestrojka’ a fornirgli il martello. E del resto, nell’ultimo suo discorso alla nazione, Gorbaciov ammise: “Ci abbiamo provato, non ci siamo riusciti”. Per poi aggiungere in anni recenti: “Il paese, la sua popolazione, la sua cultura, la sua storia non erano pronte al rinnovamento”.

Non sorprende dunque che agli occhi del suo popolo Gorbaciov non sia affatto un eroe, ma piuttosto il traditore, il detestato colpevole della fine dell’impero. Sentimento ampiamente condiviso da Vladimir Putin: che ha definito la fine dell’Urss ‘la più grande tragedia del ventunesimo secolo”, e che con la forza vuole recuperare parti dell’impero. Putin che ha riabilitato per molti aspetti Stalin (per non aver ceduto l’impero nemmeno sotto il terribile urto nazista, come se però non ci fossero anche gli orrori dello stalinismo) ma che sicuramente non riabiliterà Gorbaciov, per il quale ha speso soltanto un telegramma di condoglianze di quattro righe. Indiscutibile protagonista della Storia, amato soprattutto nelle nazioni dell’Europa orientale, a cui la sua politica ha comunque sciolto le catene della sudditanza a Mosca, Gorbaciov un merito indiscutibile lo lascia: ha evitato di usare la forza quando avrebbe potuto farlo per imporsi, evitando il vecchio automatismo, il riflesso bolscevico di chi invece inviava (e ancora invia) i carri armati per rottamare al più presto chi voleva (e ancora vuole) liberamente scegliere. Aveva chiesto ai pochi rimastigli fedeli di ‘fermare Putin’. Se ne è andato ultra-novantenne proprio mentre il suo paese, la Russia del neo-zar, spera e programma il ritorno al passato imperial-conservatore, cancellando le residue tracce dell’epoca e del lascito gorbacioviani.

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