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Naufragi

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Eleonora Giubilei
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• 28 Agosto 2021 – Eleonora Giubilei
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La quarta crisi umanitaria più grave al mondo. Preceduta soltanto da Yemen, Etiopia e Repubblica Democratica del Congo (dati provenienti dal rapporto Global Humanitarian Overview 2021, Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari). Secondo le statistiche ufficiali, più di 2,7 milioni di afghani hanno abbandonato la loro terra come rifugiati e vivono in condizioni di miseria e precarietà in Iran, Pakistan e India. Altri due milioni sono gli sfollati interni. Sono i risultati di quarant’anni di scontri fra schieramenti islamisti radicali, nonché di una politica estera, dapprima sovietica e in seguito a stelle e strisce, che ha fatto del paese mediorientale il terreno di scontro tra potenze militari e il crocevia di interessi economici i cui numeri diventano sempre più nitidi agli occhi dell’opinione pubblica.

A fare le spese sulla scacchiera della geopolitica è il popolo afghano, che ha avuto due sole strade tra cui scegliere. O restare e rischiare di entrare a far parte del milione e mezzo di morti, o del numero indefinito di feriti e mutilati che Gino Strada e la sua Emergency hanno provato a salvare, a curare, in maggioranza civili, di cui la metà donne e minori; o vivere di stenti, a causa dei disastri naturali ricorrenti come inondazioni e siccità, della povertà crescente e degli effetti della pandemia da COVID-19. Oppure scappare, cercare rifugio oltre frontiera, obbligato anche qui a una vita di miseria, ma lontano da casa e in paesi spesso ostili e inospitali.

Ora, in seguito ai discutibili accordi di Doha e al ritiro delle truppe internazionali, che hanno di fatto consegnato l’Afghanistan nelle mani dei talebani, il numero di persone considerate vulnerabili e costrette alla fuga crescerà a dismisura. Più di 18 milioni di donne, tra cui politiche, giornaliste, attiviste, e bambine verranno toccate dall’applicazione della Sharia, private di diritti e libertà, rinchiuse in casa o fatte entrare nel circuito delle schiave sessuali. Senza contare le persecuzioni ai danni di oppositori politici, minoranze religiose e comunità LGBT+.

Mentre un’altra comunità, ovvero quella internazionale, discute se istituire o meno corridoi umanitari e tentenna sul numero esatto di persone da redistribuire all’interno dei singoli stati, è praticamente certo che la crisi afghana avrà ripercussioni umane, sociali e culturali di portata catastrofica, valutabili solo negli anni a venire. Molti afghani non vedranno mai più la catena dell’Hindu Kush né la Valle del Panshir o il mercato delle spezie di Herat. Molti di più saranno coloro che non abbracceranno più i loro cari, impossibilitati sia al ritorno in patria che al ricongiungimento familiare oltre confine a causa della pericolosa situazione politica.

Ciò condizionerà anche il fragile equilibrio della diaspora afghana, che ha sperato fino all’ultimo di poter tornare a casa: un sogno che si è infranto davanti alla ferocia delle milizie talebane. Una consapevolezza che rende ancora meno sopportabile il futuro in un paese straniero, soprattutto per gli afghani che vivono in Iran.

I rapporti di Human Rights Watch descrivono la situazione dei circa due milioni e mezzo di afghani in Iran come instabile e critica. Non parliamo solo di cittadini associati alla cosiddetta “prima ondata” del 1979, conseguenza diretta dell’inizio del conflitto sovietico-afghano, in maggioranza nati e cresciuti in Iran. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) a ottobre 2020 stimava un numero di circa 780000 afghani residenti legali in Iran, ovvero in possesso di un permesso di soggiorno temporaneo o di un passaporto: cifra che però non includeva richiedenti asilo, clandestini, studenti, commercianti, viaggiatori, eccetera, e che è destinata inevitabilmente a salire.

Gli afghani in Iran vanno incontro a numerose difficoltà nella vita quotidiana e l’integrazione nel tessuto sociale è pressocché impossibile. Ad esempio vi è un elenco di aree proibite, o No-Go Areas, in cui la presenza della popolazione afghana è completamente vietata (in 15 province) o parzialmente vietata (nelle altre 12). Le persone possono spostarsi unicamente all’interno della provincia in cui è stato rilasciato il loro permesso, a meno di non acquistare a loro spese una carta di viaggio interprovinciale, ma unicamente per destinazioni dove la loro presenza è accettata. Il governo ha altresì imposto il divieto di far lavorare gli stranieri, al fine di favorire la manodopera iraniana, e attori statali e non statali, aziende e altre realtà lavorative rischiano multe salate e arresti se trovati ad assumere afghani. I rifugiati con un permesso di lavoro vengono impiegati in un numero limitato di attività manuali stabilite dalla legge iraniana, nell’edilizia, nell’agricoltura e nell’industria: spesso con salari da fame, senza sicurezza sul luogo di lavoro né assicurazione medica, in base alle fluttuazioni stagionali. Inoltre, il permesso temporaneo concesso ai rifugiati deve essere rinnovato con scadenza annuale (vi è chi lo rinnova da quarant’anni) e a carico del richiedente. I migranti, però, dal 2019 hanno la possibilità di acquistare la residenza iraniana: per la modica cifra di 250000 euro e la durata di ben 5 anni; peccato che non abbiano il diritto di comprare una casa o qualsiasi altra proprietà.

La situazione economica incerta ha fatto sì che crescesse un generale sentimento anti-straniero da parte della popolazione iraniana, cosa che ha reso sempre più limitate le possibilità di raggiungere standard di vita dignitosi e in linea con le convenzioni internazionali. Attacchi fisici e soprusi contro gli afghani sono aumentati senza che nessuna autorità iraniana prendesse misure di prevenzione, protezione o assicurazione dei responsabili alla giustizia.

Al Jazeera ha riportato, dal 2006 al 2018, casi di centinaia di richiedenti asilo afghani feriti o uccisi arbitrariamente dalla polizia iraniana, nonché casi di migliaia di respingimenti illegali e deportazioni forzate operati con sistematica brutalità. Il governo afghano ha anche chiesto l’avvio di un’indagine in merito alla vicenda di 57 lavoratori afghani picchiati dalle forze di sicurezza iraniane e fatti entrare sotto minaccia di un fucile o spinti nel fiume Harirud: di questi 57 afghani, 12 sono sopravvissuti, mentre gli altri 45 sono annegati portati via dalle acque. Manifestazioni di protesta si sono tenute a Kabul e altre città in seguito all’impiccagione in piazza in Iran di sei prigionieri afghani. Centinaia di migliaia sarebbero detenuti in carcere con accuse non definite o non veritiere. In un’altra circostanza la polizia iraniana ha aperto il fuoco contro un veicolo con 14 afghani a bordo, tutti morti bruciati vivi. Human Rights Watch ha più volte criticato il governo iraniano per il maltrattamento dei migranti da parte delle autorità. Numerose sono le denunce di torture e abusi da parte di vittime e testimoni.

Anno dopo anno, i rimpatri volontari verso l’Afghanistan sono andati aumentando, complici le misere condizioni di vita, la discriminazione, la violenza e le privazioni delle libertà individuali e dei diritti fondamentali. Ora che Kabul è caduta, ora che non vi è più un posto a cui tornare né un luogo sicuro verso cui fuggire… cosa farà questo popolo senza terra? E noi? Noi, cosa faremo?






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