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Federico Franchini
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Shigaev
• 6 Novembre 2021 – Federico Franchini
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Quando la polizia ginevrina, lo scorso 13 di settembre, ha suonato alla sua porta e gli ha notificato un mandato d’arresto, Oleg Shigaev non ha reagito. Ha preparato con calma la sua valigia e ha abbracciato sua moglie. Poi, all’improvviso, ha preso un coltello e se lo è infilzato con forza nell’addome. I poliziotti hanno dovuto ammanettarlo per potere estrarre i 10,5 centimetri di lama dal suo peritoneo parietale. Dopo essere stato ospedalizzato, l’uomo è stato portato in carcere dove ha iniziato uno sciopero della fame.

Gesti estremi, figli della disperazione di fronte al destino scritto dalle autorità e dalla giustizia elvetica. Dopo un ricorso respinto dal Tribunale federale, Oleg Shigaev è infatti atteso a Mosca dove è accusato per una presunta frode da 50 milioni di franchi. Piuttosto, meglio morire in Svizzera, sembra aver pensato.

La vicenda è complessa e, come altri casi che riguardano la Russia, non si sa bene cosa si ha di fronte: un affare di criminalità economica, oppure una manovra politica da parte delle autorità di Vladimir Putin? La Svizzera, terra d’asilo di uomini d’affari dai milioni d’origine incerta, non è nuova a dover giudicare affari delicati di questo tipo. Vicende diplomatiche, ancor prima che penali.

In questo caso la vicenda ruota attorno alla Baltic Bank di San Pietroburgo, di cui Oleg Shigaev è stato presidente. Per il banchiere l’istituto è stato vittima di un raid, termine utilizzato in Russia per descrivere il saccheggio di un’azienda organizzato in simbiosi con gli apparati statali. Dopo essere finito in disgrazia in patria, l’uomo raggiunge la moglie in riva al Lemano e inizia la sua nuova vita.

Oleg Shigaev è arrestato per la prima volta nel luglio 2018 e rilasciato due giorni dopo su cauzione di 2 milioni di franchi. Poco dopo ha chiesto, invano, asilo in Svizzera. L’argomento della persecuzione di cui sarebbe stato vittima non ha convinto i burocrati della Segreteria di Stato alle migrazioni e i vari tribunali a cui si è appellato.

È vero: per la Svizzera non è facile appurare la verità in un contesto di complotti e di lotte tra gruppi di potere russi. Altro discorso, però, è la questione dei diritti umani. Nel 2020, i tribunali svizzeri, sulla base di vari rapporti ufficiali e della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, hanno elencato le ragioni che giustificano i timori di un’estradizione verso Mosca: celle sovraffollate, igiene deplorevole, un sistema giudiziario poco indipendente e raramente imparziale, corruzione politica, casi di tortura e altri maltrattamenti nelle prigioni. Per questo, avevano stabilito i giudici, sono necessarie quelle che vengono definite “garanzie diplomatiche”, una sorta di impegno formale che le autorità russe prendono di fronte alla Svizzera in virtù del buon decorso delle relazioni tra i due Paesi.

Chiamato ad esprimersi, il Tribunale federale ha una prima volta accettato il ricorso di Shigaev: visto quanto successo in Russia di recente, Berna non poteva contare solo sulle buone esperienze fatte finora con Mosca e doveva riesaminare la questione in relazione al rispetto dei diritti umani. La palla è così ritornata all’Ufficio federale di giustizia che ha così negoziato nuove garanzie diplomatiche le quali, al secondo giro, hanno convinto i giudici.

Lo scorso settembre, il Tribunale federale ha respinto il nuovo ricorso di Shigaev e, di fatto, dato il via libera all’estradizione. Losanna ha considerato sufficienti le richieste negoziate dalla autorità bernesi. In sostanza, l’uomo – che ha perso 20 chili e si trova tuttora in una difficile situazione psicofisica – dovrà essere detenuto in un carcere “a ovest degli Urali” dove avrà diritto a parlare con il suo avvocato e a ricevere le visite della sua famiglia. Tali condizioni dovranno essere monitorate dall’ambasciata svizzera a Mosca.

Vedremo se i funzionari elvetici potranno visitare regolarmente una prigione russa. Anche se questo ci appare illusorio. Quello che è certo è che la tradizionale attitudine elvetica non è stata smentita: la tecnica scelta, in questo caso con l’avallo dei tribunali, è un sottile compromesso tra realpolitik diplomatica e retorica sul rispetto dei diritti umani. Una strategia che a volte rima con ipocrisia.






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