Anche il Ticino è Sulla Mappa

Anche il Ticino è Sulla Mappa

Pablo Creti ha realizzato Sulla Mappa, 30 anni di rap in Ticino, primo documentario Digital first RSI, visibile su Play RSI


Simona Sala
Simona Sala
Anche il Ticino è Sulla Mappa

Esserci, farne parte. Poter fieramente affermare di avere contribuito alla realizzazione di un percorso, e dunque di “essere sulla mappa”. È questo il punto di partenza, che combacia magicamente anche con quello di arrivo, del nuovo documentario di Pablo Creti, dedicato ai primi trent’anni del rap nel nostro cantone (Sulla mappa, 30 anni di RAP in Ticino), presentato la settimana scorsa al Lux di Massagno.

Guarda “Sulla mappa, 30 anni di RAP in Ticino” (da RSI Play)

Ma facciamo un passo indietro, o piuttosto, una operazione di rewind, tanto per restare in gergo. È l’agosto del 1973 quando, a New York, Bronx, il dj giamaicano-americano Kool Herc dà il via a quello che sarebbe diventato, dopo anni di pregiudizio (non sempre mal riposto), un fenomeno globale, di cui forse non è ancora chiara fino in fondo e a tutti la portata. A 51 anni di distanza, infatti, la maggior parte delle ragazze e dei ragazzi della nuova generazione, Gen Z, a livello planetario sembra avere abdicato a rock e metal, a dark e new age, per abbracciare l’hip hop con la stessa devozione che normalmente si concede alla fede. E tutto ciò in un processo che va al di là della semplice musica (oggi, spesso, più che il rap, infatti, se ne ascoltano ramificazioni come trap e drill), poiché si riverbera anche nel gergo, nel look, nell’arte di strada e in certi stili di vita. Complici autotune e accessibilità alle basi campionate, nonché un fortissimo senso di appartenenza al mainstream (un tempo non era così), oggi chiunque si può cimentare nella produzione di brani hip hop, e perfino da casa propria. Ciò si vede dalle centinaia di nomi che, come meteore, attraversano la galassia statunitense, ma anche italiana, francese e spagnola, perfino tedesca.

All’inizio però non è stato così: come mostra Sulla mappa, per fare del rap occorreva metterci la faccia. Le tute aderenti abbinate alla sacoche haute couture che vediamo nei video e per strada, all’inizio erano baggy jeans dalle dimensioni oversize, le permanenti di oggi erano ricci naturali spesso nascosti da baseball cap, mentre i brani caricati su Spotify e YouTube erano tracce registrate su cassette, o mixtape, da ascoltarsi tutt’al più su walkman.

Come mostra il documentario di Pablo Creti, i primi protagonisti della scena nata in Ticino tre decenni or sono, oltre a essere stati dei veri e propri pionieri (e dunque essersi dovuti letteralmente inventare tutto), hanno subito anche il fatto di essere nati in Svizzera. Eh già, perché abbracciare un genere musicale che nasce come forma di protesta sociale e praticarlo nella nazione che, secondo statistica, è fra le più ricche al mondo, è una bella sfida. Vinta però dai nostri, che, come raccontano con sincerità nel documentario, sono riusciti a evidenziare proprio quelle pieghe in cui l’accettazione sociale e i soldi non arrivano, oppure, a sottolineare come certe forme di agio vadano di pari passo con la noia, l’appiattimento e la mancanza di creatività. Creti, nel suo documentario (cui va riconosciuto il merito di ripercorrere in modo magistrale, con interviste di archivio e di prima mano, un pezzo importante di storia del nostro cantone, musicale, certo, ma anche umana – oltre a offrirci vedute mozzafiato delle nostre città riprese dall’alto, di notte) riesce a contestualizzare un fenomeno che meteora non è stato, come dimostrano i nomi più recenti, fieri di portare avanti quanto iniziato prima di loro, pensiamo a Mattak, nato negli anni 90, o Ele A, nata addirittura nel nuovo millennio, due personaggi di cui si parla anche in Italia. Negli anni 90 i protagonisti del rap made in Ticino, infatti, hanno osato, a dispetto del pensiero altrui (erano pochi quelli che conoscevano il genere allora), agendo secondo il motto “go for it”, che in anni di perseveranza, oltre a guadagnarsi una massiccia dose di rispetto, ha permesso loro di scrivere un capitolo importante per il Cantone.

Ma chi ha davvero cominciato a fare rap in Ticino e dove? La scena è nata a Lugano, Locarno, Bellinzona, o invece nel Mendrisiotto? Secondo Mafio, per anni fra gli organizzatori, insieme a Michel (erano i Momo Posse), del «burdell della sagra», evento dedicato ai dj reggae e ai live rap, le radici sono a Mendrisio (quando era ancora la Sagra dell’uva, piuttosto di quella del Borgo), poi però troviamo anche le geniali intuizioni di un MaxiB, da Lugano, che nella sua carriera ha lavorato con Fabri Fibra, o di Jay-K, da Bellinzona, che ha partecipato ai Campionati del mondo, tanto per citarne alcuni. Con tutta probabilità poco importa dove, a contare più di tutto il resto è come contesti di quel genere (vedi anche il compianto Palco ai giovani, così come il mitico Peter Pan, l’apprezzato Metro o il contest freestyle Big Bang block party della Big Bang Family) abbiano garantito per anni un passaggio del testimone fra artisti, nonché l’apertura di mente e la possibilità di confrontarsi con i propri limiti grazie all’esibizione su un palco. 

Il documentario, forse come conseguenza non del tutto volontaria, ci mostra anche come negli anni in questo Cantone, in ambito di spazi giovanili, si sia giocato sempre e soprattutto al ribasso, chiudendo locali o limitandone l’uso, riducendo di fatto inesorabilmente le possibilità aggregative necessarie a ogni società per uno sviluppo creativo e versatile. Oggi il palco non è più necessario, è vero, e in qualche modo i social possono agire da cassa di risonanza laddove la televisione non se la sente ancora di aprire del tutto le porte a questo genere (nonostante Sulla mappa ci mostri la passione smodata di Matteo Pelli per rime, bassi&co.), eppure il bisogno di spazi da parte dei giovani non pare scemare, anzi.

Una recensione di Sulla mappa, porta per sua natura e per dimensioni, a lasciare fuori più artisti di quanti se ne vorrebbero citare (sono una trentina quelli del documentario), ma quello che conta, alla fine, è il fatto di riconoscervi un lavoro importante e minuzioso, in cui le idee, gli slanci, le speranze e le visioni di due generazioni e mezza convergono nella realizzazione del ritratto di una gioventù ticinese che, pur agendo spesso nell’underground, lontana anni luce dai riflettori istituzionali, è riuscita a lasciare un segno importante, visibile ancora oggi. E così, al netto, di un briciolo di commozione per chi appartiene alla stessa generazione e geografia dei pionieri, il rap riesce in ciò che non è scontato nemmeno in altri generi, ossia a creare un senso di comunità. 

Nell’immagine: il rapper Ray in un fotogramma del documentario

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