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Lelio Demichelis
Lelio Demichelis
Cambiare le parole per non cambiare nulla
• 16 Luglio 2021 – Lelio Demichelis
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C’è una parola che sta diventando sempre più di moda, soprattutto in Europa. Certo, non come smart (smart-phone, smart-working, smart-cities, smart-shopping, smart-factory, smart-tutto, smart-eccetera) – parola magica che dice tutto e il contrario di tutto – eppure ha la sua stessa capacità di dire e non dire, mascherare e affascinare. Una parola che richiama qualcosa di morbido, di piacevole e insieme di coinvolgente.  La parola è: resilienza.

In Italia, Draghi ha presentato all’Europa il suo Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Le politiche europee e il Next Generation EU si pongono l’obiettivo di arrivare a “un’Europa più ecologica, digitale e resiliente” ai cambiamenti climatici.

Ma cosa significa resilienza? Secondo treccani.it in ecologia la resilienza è “la velocità con cui una comunità (o un sistema ecologico) ritorna al suo stato iniziale, dopo essere stata sottoposta a una perturbazione che l’ha allontanata da quella condizione”; mentre in psicologia, la resilienza è “la capacità dell’individuo di reagire a traumi e difficoltà, recuperando l’equilibrio psicologico attraverso la mobilitazione delle risorse interiori e la riorganizzazione in chiave positiva della struttura della personalità”.

Se applichiamo questa definizione all’oggi, dover tornare a come eravamo prima della pandemia attraverso la mobilitazione delle risorse interiori individuali e la riorganizzazione in chiave positiva della struttura della personalità – è oggi il mantra che il sistema e i mass/social-media ci fanno recitare ogni giorno per assorbire l’urto della pandemia senza rompersi (senza rompere il sistema produttivo e consumativo, semmai rilanciandolo come prima  e più di prima), cioè senza cambiare nulla rispetto a prima della pandemia. Dimenticando che di fronte a noi abbiamo una crisi climatica sempre più grave, contro la quale non bastano un po’ di green economy, di economia circolare e di digitale.

Concentriamoci sulla definizione di resilienza in psicologia. Che esprime una classica retorica neoliberale (non contare sugli altri ma conta solo su te stesso, pensa positivo), ma è anche una classica azione manageriale di problem solving a valle – e non di eliminazione a monte della causa che ha prodotto il problema. Per questo la parola è usata soprattutto dalle tecnocrazie e dai governi neoliberali. La resilienza sembra diventata allora niente più che un modo diverso per dire adattamento dell’uomo anche alla crisi climatica e non la sua reale soluzione.

E di adattamento – fondamento della filosofia (sic!) neoliberale – aveva scritto, tre quarti di secolo fa, Walter Lippmann sostenendo appunto che compito del neoliberalismo è quello di modificare l’uomo, adattandolo alle esigenze della produzione e del capitalismo, divenendo “un nuovo sistema di vita per l’intera umanità”, così che “l’ambiente sociale e il sistema capitalistico possano formare un tutto armonico”. Adattamento: qualcosa di profondamente illiberale e di immorale, poiché nega all’individuo la sua libertà e gli impone solo di adattarsi alle esigenze del capitale.

Due notizie recenti per approfondire il tema e capire cosa sia la resilienza. La prima: secondo il Rapporto Focsiv sui ‘Padroni della terra’ – se nel 2018 l’agrobusiness concentrava nelle sue mani 88 milioni di ettari di terra nel mondo, nel 2020 (in piena pandemia e crisi climatica) questo fenomeno ha raggiunto e superato i 93 milioni di ettari, “strappati alle popolazioni locali e consegnati ad un sistema estrattivista che sta portando il Pianeta a un punto di non ritorno”. Si chiama land grabbing e “questi 93 milioni di ettari sono pari alla superficie di Germania e Francia messe insieme”. Ovvero il capitalismo continua a sfruttare sempre di più la terra e gli uomini; altro che sostenibilità ambientale e transizione ecologica…

La seconda: l’accordo raggiunto al G20 di Venezia sulla proposta (la decisione è rimandata a ottobre) di aliquota globale minima di tassazione delle multinazionali si dimostra sempre più uno specchietto per le allodole (e le allodole siamo noi). Il trucco – ma accolto con grande favore da (quasi) tutti, presentandolo come una rivolta della politica contro le multinazionali – sta nell’avere applicato un’aliquota minima molto modesta (15%), vicina alla media già usata dagli Stati che fanno concorrenza fiscale sleale. Di più: dall’accordo sono state escluse le società finanziarie. Altro che rivolta: la politica si adatta alle esigenze del capitale, con una spolverata di falsa giustizia sociale e fiscale. E noi ci adattiamo alle esigenze del capitale. In perfetta resilienza neoliberale.

Cambiare tutto (in apparenza) per non cambiare nulla: si chiamava trasformismo o gattopardismo riprendendolo da Il Gattopardo, l’opera famosa di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Non vorremmo che oggi si chiamasse resilienza.






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Lelio Demichelis
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