Yari Bernasconi – Dentro uno specchio, né giovane né vecchio
Un più discreto amore per la vita - A cento anni dalla nascita, parole e versi di Giorgio Orelli nel ricordo di scrittori e amici
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Un più discreto amore per la vita - A cento anni dalla nascita, parole e versi di Giorgio Orelli nel ricordo di scrittori e amici
Fra i non molti libri che portai con me a Friburgo nel 2002, per il primo anno di università, c’era Il collo dell’anitra. Recava – e reca tuttora – la dedica «A Yari Bernasconi, con molta simpatia, Giorgio Orelli»: il ricordo di una lettura bellinzonese, in una libreria, o più probabilmente il premio per aver sconfitto la timidezza ed essere entrato in quella saletta stipata di sconosciuti.
Scoprii presto che la biblioteca universitaria era una miniera d’oro, e che fra le sue perle c’erano gli altri libri di Orelli. Cominciai così a sfogliarli e a leggerli e a fotocopiare le mie poesie preferite. Fra loro, Prima dell’anno nuovo nella versione de L’ora del tempo: una suite in due tempi di cui non credo avessi capito molto, allora, ma con dei versi che mi colpirono e che ancora oggi, sulla fotocopia che ho custodito, figurano pesantemente sottolineati: «mi sono / guardato nello specchio: / né giovane né vecchio» (con quattro esuberanti punti esclamativi). Certo ignoravo che Mario Luzi in Notizie a Giuseppina dopo tanti anni avesse scritto «Mi trovo qui a questa età che sai, / né giovane né vecchio, attendo, guardo»; come ignoravo che il sintagma fosse shakespeariano, da Misura per misura, citato in epigrafe a Gerontion da T.S. Eliot: «Non sei né giovane né vecchio / ma è come se dormissi dopo pranzo / sognando di entrambe le età». Ignoravo probabilmente tutti i riferimenti intertestuali, e anche di più, eppure i versi di Orelli mi sembrarono potenti. Sono io, mi dissi con una certa baldanza: quello è il mio specchio.
Erano anni d’incrollabile fiducia, nei libri e nella vita, e per quanto io guardi indietro con ironica tenerezza (e malcelata invidia), ricordo la sensazione di essermi davvero trovato in quelle parole, o nella sospensione di quelle parole, «tra l’essere e il non-essere», come disse Orelli per Luzi (ma anche questo lo scoprii molto dopo). Segretamente, feci mia quella perfetta auto-definizione.
Finché il tempo non prese a correre, la baldanza iniziò a vacillare, la fiducia si fece più matura ma anche più ombrosa. E solo dopo aver letto innumerevoli volte quella poesia mi resi conto che a quel ritratto – il mio – mancava un tassello essenziale. Mancavano quattro parole, che non avevo visto o non potevo vedere: «più che abete / larice». Non il sempreverde abete, quindi, ma il mutevole larice, l’unica conifera in Europa che non ha le foglie persistenti, e cambia aspetto e colore secondo le stagioni. Non ebbi più alcun dubbio: era veramente il mio specchio, e come il più intimo degli amici avanzava con me, mi accompagnava nell’incostanza della vita. Senza giudicare, senza azzardare risposte. Ogni tanto mi sorprendeva con qualcosa di nuovo; altre volte mi bastava che ci fosse. E lui c’era.
È così anche oggi, che scrivo. Penso a Giorgio Orelli che dal divano del suo salotto mi indica i due ragni sul soffitto, pochi anni fa, forse ieri. Torno a cercare la fotocopia stropicciata. Prendo una matita e sottolineo: larice.
Wer redet, ist nicht tot
BENN, Kommt
I
Ancora una vigilia mi trattiene:
leggero, gli occhi attenti,
contro gli stipiti saldi, duraturi.
Neve rappresa ai cigli delle case,
nell’orto il sambuco in gramaglie
e l’alveare, vuoto, o il contrario, d’api;
poi vortice di grani in cui nulla si muove
fuor che l’arbusto emerso dal ricordo
d’una caccia remota, senza preda.
Chi entra, e parla: “Se ti laverai
diventerai più bianco della neve”,
non è morto: con gesto giovanile
benedice la casa. Il ragazzo
che ieri andava sui trampoli qua e là
oggi reca un cestello di bianchi dolci all’anice.
Ravvolti nell’odore natalizio
del pino – fronda, resina
del nostro bosco intatto –
nulla, o quasi, sappiamo dell’issopo.
Risaliremo a mezzanotte il colle,
sotto il portico buio ci faremo gli auguri,
gli stessi della fine e del principio.
II
Il vischio sull’armadio; la madre che ha in grembo
un mucchio di ricordi senza polpa;
(dietro la testa di mia madre gli alberi
di ciliege e marene tratteneva,
ieri, un cielo stupito di sorridere);
la bottiglia (sciroppo di sambuco);
ma la stufa si lagna d’un intoppo.
Nasce un odore, par d’acetilene,
e San Silvestro viene, spazza il destro.
È caduta una bacca, ho pensato
la tua bocca serrata; mi sono
guardato nello specchio:
né giovane né vecchio, più che abete
larice, m’allontana
l’inverno in una cenere
d’aghi ove ronza accanito un moscone.
Prima dell’anno nuovo non farò
su questo tema alcuna variazione.
Foto Giorgio Orelli © RSI
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