Se danneggi l’ambiente mi licenzio
Quando in nome della causa ambientale si lascia il posto di lavoro e se ne crea un altro fatto apposta per affrontare la battaglia per il clima
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Quando in nome della causa ambientale si lascia il posto di lavoro e se ne crea un altro fatto apposta per affrontare la battaglia per il clima
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Quando in nome della causa ambientale si lascia il posto di lavoro e se ne crea un altro fatto apposta per affrontare la battaglia per il clima
Il fenomeno del climate quitting rientra in quello delle grandi dimissioni e coinvolge per lo più persone giovani che cambiano o lasciano il proprio lavoro se lo considerano dannoso per il pianeta.
“Dopo molti anni all’estero, ero tornato in Italia ed ero stato assunto da un’azienda di consulenza. Mi occupavo di bilanci di sostenibilità: il lavoro era interessante, avevo un contratto a tempo indeterminato e guadagnavo bene. Un giorno mi è stato chiesto di lavorare sulla strategia green di una delle maggiori aziende petrolifere italiane: ho detto che non ero d’accordo, ma mi hanno risposto che quello era un cliente di cui non si poteva fare a meno. Così ho deciso di licenziarmi”.
Andrea Grieco, 31 anni, è un climate quitter, un giovane che ha scelto di lasciare il suo lavoro per ragioni legate alla salvaguardia del pianeta. La tendenza rientra nel fenomeno delle grandi dimissioni, ma dietro alla decisione di licenziarsi c’è in questo caso una motivazione specifica: ridurre il proprio impatto ambientale e dedicarsi a settori come l’economia circolare, la sostenibilità e le energie rinnovabili. “Gran parte delle nostre giornate è occupata dal lavoro: è importante mettere queste energie dalla parte giusta”, spiega Grieco. “Dopo qualche mese sono stato assunto da una realtà editoriale in cui scrivevo di sostenibilità: guadagnavo molto meno, ma mi sentivo a posto con me stesso. Adesso lavoro per le Nazioni Unite, mi occupo di comunicazione in supporto alla campagna globale contro il cambiamento climatico. Oggi definirsi attivisti è una moda, ma anche decidere quale professione si vuol fare è una forma importante di attivismo”.
Una ricerca sulle dimissioni volontarie realizzata nel 2023 dall’osservatorio Hr innovation practice del Politecnico di Milano mostra che, in Italia, il 65 per cento di chi ha meno di 30 anni considera importante che il proprio lavoro abbia un impatto positivo sulla società. Chi ha cambiato impiego, o ha intenzione di cambiarlo nei prossimi sei mesi, nel 6 per cento dei casi compie questa scelta per questioni legate all’impatto sociale e ambientale dell’azienda o dell’organizzazione in cui lavora: considerando solo la fascia sotto ai 30 anni, la percentuale sale all’11 per cento, quattro punti in più rispetto al 2022. “La sostenibilità dell’azienda non è il motivo principale che spinge le persone a cambiare lavoro: ai primi posti ci sono ancora la retribuzione, le opportunità di carriera, la flessibilità e il benessere psicologico”, spiega Martina Mauri, direttrice dell’osservatorio. “È interessante però notare come questo fattore diventi più rilevante al diminuire dell’età: il climate quitting è un fenomeno che interessa soprattutto i giovani, e presumibilmente sarà sempre più diffuso nei prossimi anni”.
Un sondaggio della Yale school of management su duemila studenti statunitensi mostra che più della metà accetterebbe stipendi più bassi pur di lavorare per un’azienda attenta all’ambiente. Tendenza confermata anche da una recente indagine della Kpmg svolta nel Regno Unito, che evidenzia come i fattori ambientali, sociali e di governance influenzino sempre più le decisioni occupazionali di quasi la metà degli impiegati britannici, soprattutto i più giovani. Nel mondo, una persona su cinque occupata nel settore delle rinnovabili proviene da un altro campo sempre legato all’energia, e quasi un terzo ha lasciato l’industria petrolifera e del gas. L’82 per cento di chi opera ancora nel settore petrolifero sta prendendo in considerazione l’idea di cambiare, e la metà considera di buon occhio un possibile impiego nel campo dell’energia verde.
“Con il mio lavoro spingevo le persone verso uno stile di vita non sostenibile per il pianeta, e intanto sentivo l’orologio climatico che ticchettava”, racconta Alice Pomiato, 32 anni, che era impiegata come digital strategist in un’agenzia di comunicazione. “Tutte le campagne che curavo aiutavano i clienti a vendere sempre di più, e questo andava contro i miei valori. A 27 anni ho mollato tutto, ho comprato un biglietto per l’Australia e ho aperto un account Instagram per condividere con le persone il mio percorso verso una vita più sostenibile”. Oggi Alice ha quasi 50mila follower e lavora come content creator sul tema della sostenibilità.
Mentre le persone cercano posti di lavoro più “verdi”, allo stesso tempo anche nelle imprese cresce la richiesta di figure professionali con questo tipo di competenze: Confindustria, insieme all’Osservatorio 4Manager, ha dichiarato che in Italia nel 2026 le offerte di lavoro per chi ha competenze ambientali arriveranno a circa quattro milioni. Lo stesso avviene all’estero: i dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro mostrano che nel mondo 12,7 milioni di persone sono impiegate nel settore delle energie rinnovabili, ed entro il 2030 saranno creati più di 38 milioni di nuovi posti. Oggi le persone impiegate nel segmento dell’energia pulita sono più di quelle occupate nelle aziende petrolifere.
Quello dell’energia è solo uno degli ambiti interessati dal climate quitting. “Lavoravo nel settore dell’abbigliamento per grandi marchi della moda”, racconta Marcella Pozza, 29 anni. “Realizzavamo capi made in Italy, con filati naturali, ma poi ho scoperto una serie di retroscena: come avviene la tintura dei tessuti, quanti sono gli scarti, quanto è sottopagata la manodopera. In più, mi sentivo sfruttata: avevo un contratto interinale, lavoravo a ritmi stressantissimi e dovevo timbrare il cartellino anche per andare in bagno. A un certo punto non ce l’ho fatta più: mi sono licenziata e sono andata a lavorare in un piccolo maglificio. Mi pagavano meno, ma ero più felice. Uno non va al lavoro solo per guadagnare: se quello che fai va contro i tuoi valori, come vai avanti?”.
Marcella ha poi vinto il concorso per la scuola e ora insegna in un istituto professionale di moda. “Il settore dell’abbigliamento è uno dei più inquinanti del mondo: con gli studenti affrontiamo temi legati al cambiamento climatico, riflettiamo sui diritti dei lavoratori e studiamo una progettazione circolare dei vestiti, facendo riparazioni o riusando materiali, come le buste del caffè”.
Per un numero crescente di persone, la questione ambientale rappresenta non solo una variabile da cui far dipendere la scelta del proprio lavoro, ma anche un fattore che determina il grado di attaccamento all’azienda e, di riflesso, l’essere più produttivi e motivati.
Secondo uno studio condotto negli Stati Uniti, nove dipendenti su dieci sono più soddisfatti e felici se coinvolti nelle iniziative verdi messe in campo dalla propria azienda. “La questione della sostenibilità sarà sempre più legata al rendimento economico delle imprese”, afferma Alessandro Sancino, docente di management e innovazione sostenibile dell’università Bicocca, “che si muoveranno verso una cultura verde non solo per motivi etici e per migliorare la loro reputazione sociale, ma anche per questioni di convenienza economica”.
Oggi i dipendenti chiedono sempre più alle imprese di perseguire la sostenibilità non solo ecologica ma anche sociale: ambienti di lavoro in grado di valorizzare diversi talenti, pratiche di riconoscimento del merito formali e informali, ma anche misure che migliorino l’equilibrio vita-lavoro, come lo smart working e la settimana lavorativa corta.
“Tante persone si dimettono perché non sono più disposte a vivere per lavorare e ricevere un compenso che produce profitto per qualcun altro”, spiega la sociologa Francesca Coin, autrice del saggio Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita. “Quello che spesso manca nel lavoro è una visione di futuro. Le aziende a basso impatto ambientale offrono proprio questo: ecco perché spesso hanno dati di dimissioni più bassi, mentre la loro capacità di attirare e trattenere personale è più elevata. La pandemia, in questo senso, ha segnato uno spartiacque, ed è stata la cartina tornasole di tutto ciò che prima non funzionava: una cultura del lavoro tossica, fatta di salari bassi e turni massacranti, di mobbing e di bullismo, di scarsa sicurezza del e sul lavoro, di un senso del lavoro che spesso manca. Le grandi dimissioni nascono da qui”.
Per rendersi accattivanti agli occhi dei dipendenti, dei potenziali candidati e dei clienti, oggi molte aziende mettono la sostenibilità al centro della loro strategia di marketing e comunicazione, tanto che si parla di green employer branding. Gli uffici delle risorse umane promuovono la cosiddetta green work culture, una cultura del lavoro “verde”: c’è chi fornisce biciclette a uso gratuito per recarsi al lavoro, chi punta a ridurre il consumo di plastica e gli sprechi di carta negli uffici, chi usa prodotti a chilometro zero e limita il consumo di carne nelle mense. Alcune imprese scelgono di farsi certificare come B corporation, impegnandosi a rispettare determinati standard per garantire un impatto positivo sui propri dipendenti, sulla società e sull’ambiente. Oggi le aziende certificate come B corporation sono più di seimila nel mondo, 200 in Italia: nel nostro paese la prima è stata la Nativa, certificata nel 2013.
Quest’azienda si occupa di accompagnare altre imprese per migliorare il loro impatto sociale e ambientale. “Durante l’università avevo già firmato un contratto con un’azienda solida: possedevo tutto quello che la società ti dice di desiderare”, spiega Valentina, 28 anni, che adesso lavora per la Nativa. “Questo però non mi rendeva felice: compilare delle tabelle Excel per far migliorare i risultati dell’azienda non era il mio obiettivo. Mi chiedevo: che eredità voglio lasciare nel mondo? Guardavo mia sorella più piccola e mi ripetevo che questo pianeta lo stiamo prendendo in prestito dalle generazioni future”.
Per il suo tipo di missione, la Nativa è capace di attirare molte persone giovani. “Ogni settimana arrivano decine di curricula di professionisti disposti a lasciare il loro lavoro per entrare a far parte del nostro gruppo”, spiega Paolo Di Cesare, che nel 2012 ha fondato la start up insieme a Eric Ezechieli. “È in corso un cambiamento storico: oggi il mito del posto fisso è crollato e le persone cercano un senso nel lavoro. Si può dire che anche io sia un climate quitter: prima avevo un’azienda di consulenza tradizionale, con un buon fatturato, ma a un certo punto ho deciso di venderla. Ho capito che non ha senso avere successo, se poi si scopre che quel successo non è servito a nulla”.
Nel 2015 i fondatori della Nativa hanno contribuito alla stesura della legge che ha introdotto in Italia una nuova forma giuridica di impresa, l’azienda benefit, che integra nel proprio oggetto sociale, oltre agli obiettivi di profitto, lo scopo di avere un impatto positivo sulla società e sulla biosfera. “Olivetti si chiedeva: oltre al ritmo dei bilanci, qual è la vocazione di un’azienda?”, racconta Di Cesare. “In Italia questo tema sta prendendo piede in modo robusto: tante imprese oggi vogliono capire qual è la propria vocazione e migliorare il proprio impatto. Certo, ci sono anche quelle che mirano solo a rifarsi la reputazione: il greenwashing esiste. Comunque non bisogna vedere tutto o bianco o nero: la transizione è un processo graduale, che non può avvenire da un giorno all’altro”.
Anche perché, come mostra un’indagine di Linkedin del 2022, al momento non ci sarebbero abbastanza persone qualificate per soddisfare la domanda di professionisti della sostenibilità: dal 2015 a oggi le offerte di lavoro “verdi” sono infatti aumentate dell’8 per cento all’anno, mentre le candidature di chi ha competenze adeguate sono salite solo del 6 per cento. Ecco perché bisognerebbe investire nella formazione, per preparare persone esperte nell’ambito della sostenibilità: responsabile sostenibilità, specialista della sostenibilità, responsabile ambiente, responsabile della governance. “Questo vocabolario è piuttosto circoscritto a professionalità di medio-alto livello, con potere contrattuale ed esperienze pregresse”, afferma Vittorio Martone, sociologo dell’ambiente dell’università di Torino. “Ecco perché il climate quitting non è per tutti. Esiste però un altro fenomeno, che pure si collega in qualche modo al mutamento di valori che coinvolge il lavoro: si tratta del ritorno alla terra, dei ‘nuovi montanari’ e della romanticizzazione della vita nei borghi”.
È la scelta che ha fatto Matteo Turrino, 34 anni, attivista di Extinction rebellion che prima lavorava come programmatore per un’azienda del Regno Unito nel settore finanziario. “Per poter lavorare in quel contesto dovevo astrarmi completamente”, racconta. “Come potevo andare in ufficio pensando che fra trent’anni un miliardo di persone rimarranno senz’acqua? Ricordo un viaggio di lavoro a Dubai: ero seduto davanti al computer dentro un grattacielo con l’aria condizionata, mentre fuori c’erano 50 gradi e decine di operai nei cantieri sotto il sole. In quel momento mi sono chiesto: perché io sono qui e loro lì?”. Matteo aveva un contratto fisso e un buono stipendio, ma ha comunque deciso di licenziarsi. “Mi domandavo: il lavoro che sto facendo rispetta i miei valori? Ho davvero bisogno di tutti questi soldi? Per cambiare il mio modo di vivere, mi sono trasferito sull’Appennino con altre persone, con cui condivido i miei ideali e il mio tempo tra studio, scrittura e attivismo. Per molti il lavoro è una forma di attivismo, a me piacerebbe che l’attivismo diventasse un lavoro: tornare alla vita di prima non è un’opzione che posso contemplare”.
Nell’immagine: fotografia di Paul Bruins (Flickr)
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