Non c’è solo il “caso Ruag”, azienda interamente di proprietà della Confederazione che è dovuta intervenire per bloccare l’eventuale rivendita di carrarmati Leopard 1 (riadattati per la guerra) all’Ucraina. In più, c’è che società svizzere continuano ad essere sospettate di far parte di un corposo elenco di ditte occidentali che riescono a eludere le sanzioni antirusse e che sono in grado di aiutare in modo decisivo Mosca nella costruzione dei missili più potenti, che colpiscono non solo obiettivi militari, ma spesso anche obiettivi civili, facendo stragi nella popolazione. Attraverso una serie di operazioni commerciali e finanziarie escogitate per eludere i provvedimenti occidentali, l’esercito di Vladimir Putin riceverebbe infatti componenti di apparecchiature di vario tipo: originariamente destinate all’impiego non bellico, ma che si rivelano facilmente applicabili agli ordigni che portano morte e distruzione.
In un’analisi della rivista di geo-strategia “Limes”, diretta da Lucio Caracciolo, si può leggere: “Dal 24 febbraio 2022 la Russia ha lanciato quasi 6 mila missili contro l’Ucraina, bombardando 3.387 aree civili, e uccidendo 1.734 civili. Come se cifre simili non bastassero, dietro tutto ciò si nasconde il paradosso per eccellenza della guerra sul terreno: la Russia è riuscita a lanciare un così alto numero di missili grazie alla componentistica elettronica occidentale”. Circostanza che il governo del presidente Zelenskyj, in apparenza sempre meno in sintonia con i disegni e le preoccupazioni di Washington, ha denunciato attraverso un apposito documento ufficiale, lo “Stop Missile Terror”.
È corposa la lista dei paesi che non farebbero abbastanza per spezzare questa collaborazione occulta organizzata da alcuni settori privati: Stati Uniti, Gran Bretagna, diverse nazioni dell’UE, Canada, Nuova Zelanda, Australia, Giappone, ed appunto Svizzera. La Confederazione, sostiene il rapporto, con l’8% di questo tipo di consegne occupa addirittura il secondo posto fra i paesi che applicano sanzioni ma da cui partono i materiali di fabbricazione straniera utilizzati da Mosca nella produzione di missili. In testa, addirittura con l’81 %, aziende statunitensi, con il 3,5 % Germania e Giappone. Senza questi “contributi” tecnologici stranieri, la produzione degli armamenti di Putin non disporrebbe per esempio nemmeno delle prime dieci componenti di uno dei missili balistici russi più noti, efficaci e micidiali, il “Kinžal”. Lo stesso ragionamento vale anche per i software interni ai missili, che li rendono più precisi e performanti, per le componenti radio e per i materiali isolanti come vernici, connettori e polimeri. Inoltre: missili e aeromobili a pilotaggio remoto funzionano grazie a GPS e a Glonass, sistemi satellitari globali di navigazione: “Eliminarne le funzioni principali significherebbe ridurre la potenzialità militare russa; e l’Occidente potrebbe farlo perché sono proprio i microchip fabbricati da aziende come Linx Technologies e Qualcomm (Stati Uniti) ed STMicroelectronics (Svizzera, Olanda, Francia) a consentire il funzionamento di Glonass. Eppure, niente di tutto ciò è avvenuto”.
Il Cremlino non importa solo le componenti elettroniche, ma anche i mezzi per produrre le macchine stesse. Esempio: “la tecnologia a controllo numerico computerizzato, utilizzata per produrre impianti senza la partecipazione diretta dell’uomo, funziona grazie a componenti chiave che la Russia continua a importare per un valore complessivo superiore all’80%. Con l’attuale programma di riarmo, gli acquisti sono in netto aumento. E ad alimentarlo ci pensano società nipponiche, taiwanesi, americane e tedesche. Risultato finale: la Russia si è adattata alle sanzioni, e se nel 2022 ha prodotto 512 missili, per quest’anno prevede di fabbricarne ben 1.061”.
Ora, in che modo la tecnologia dell’Occidente, o dei suoi paesi alleati, può arrivare in Russia nonostante le declamate sanzioni? Si passa attraverso “paesi terzi” che non hanno aderito ai provvedimenti anti-Cremlino. Il caso più significativo è quello della Cina, l’“alleato senza limiti”, come lo ha classificato Vladimir Putin. Segnala lo studio di “Limes”: le aziende cinesi che producono componenti elettroniche inseriscono nei loro cataloghi articoli provenienti da paesi come Stati Uniti e Giappone, li ordinano, e una volta acquistati li spediscono in Russia. Il sistema doganale della Repubblica popolare esige una prova documentale dettagliata dell’intera catena di fornitura, che gli enti stranieri potrebbero richiedere per capire dove vanno a finire le loro merci. Tuttavia le aziende cinesi effettuano spedizioni a società russe non sanzionate dai paesi occidentali, e fanno passare prodotti tecnologici come prodotti di uso domestico. In questo modo lo scopo militare di tali spedizioni non risulterà evidente a nessuno”. Vale per la Cina, e vale per altre nazioni. I componenti elettronici inviati attraverso “paesi terzi” possono essere usati per scopo civile (sanitario, trasporti) o domestico (frigoriferi, lavastoviglie, fibre ottiche). A livello mondiale sarebbe impossibile vietare il commercio di elementi elettronici che possono essere utilizzate tanto in un missile quanto in una macchina sanitaria.
Nemmeno il pagamento costituisce un gran problema. Si può farlo con le criptovalute. O con transazioni in oro. Per un paese come la Russia, ricco di materie prime, si può facilmente ricorrere anche al baratto: petrolio in cambio di tecnologie. I controlli sono difficili: sia perché lo schema sanzionatorio venne deciso prima dell’invasione russa, sia perché il livello degli scambi commerciali di questo tipo ha raggiunto quote di importanza imprevista. Problematico, dunque, individuare i doppiogiochisti. Uno di questi casi inusuali riguarda proprio un uomo d’affari italo-svizzero, Walter Moretti, che insieme ad altri cittadini, elvetici ed europei, è stato inserito nella black list degli Stati Uniti, con le nuove sanzioni adottate nel primo anniversario dell’invasione dell’Ucraina: attraverso società con sede nella Confederazione, negli Emirati Arabi, in Bulgaria e Malta, Moretti è accusato di “aver segretamente procurato tecnologie, e attrezzature occidentali sensibili, ai servizi segreti russi e all’esercito russo”.
Una revisione e un ammodernamento delle misure di verifica sarebbe possibile. Ma in realtà l’impedimento maggiore a un mutamento della situazione è di natura politica. Che, in conclusione, “Limes” così riassume: “Più che altro, sembra mancare la volontà. Anche perché, per il momento, non si vedono soluzioni immediate. Se si volesse ricorrere a un rimedio drastico come quello di sanzionare e tagliare i ponti pure con paesi terzi – leggasi Cina – si andrebbe incontro a una riduzione di almeno la metà del PIL mondiale e a una guerra senza limiti. Sarebbe il caos. Economico e geopolitico. Cosa che nessuno vuole se si tratta ‘solo’ di salvare l’Ucraina. Neanche gli Stati Uniti”.
Nell’immagine: un missile ipersonico russo Kinžal (“pugnale”) trasportato da un MiG-31