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• 11 Marzo 2023 – Redazione

Nel periodo elettorale i contributi di candidate e candidati sono benvenuti sulla nostra zattera secondo queste regole

Di Giorgio Biferali, Esquire

A un anno dall’uscita de Il castello di Barbablù, l’ultimo capitolo della trilogia che vede protagonista il detective Melchor Marin, Javier Cercas torna in libreria con Colpi alla cieca, un raccolta di saggi, di cronache, di racconti sul nostro presente, pubblicata da Guanda (a cura di Bruno Arpaia). Si parla di pandemia, di femminismo, di politicamente corretto, del ruolo dell’intellettuale, di politica e dei politici, in generale, di guerra, lo sport europeo per eccellenza, e ovviamente di Europa, “il progetto politico più prezioso dei nostri tempi”.

Com’è nata l’idea di raccogliere questi testi?

Oltre ai romanzi, ho scritto tanto negli ultimi vent’anni, articoli, saggi, cronache. È stato il mio editore italiano Luigi Brioschi che mi ha detto: “Javier, facciamone un libro”. Io gli ho detto che andava bene, ma che avevo bisogno di qualcuno che scegliesse con cura i brani da raccogliere nel libro. Allora lui mi ha proposto Bruno Arpaia, che conosce meglio di me le cose che ho scritto, perché ha letto, ha tradotto i miei libri. L’edizione spagnola di questo libro è molto più grande, sono cinque libri, uno sulla storia, uno sulla politica, uno sulla Catalogna, uno sulla letteratura e un altro più autobiografico. Non sono un giornalista, ma per me scrivere sui giornali è un grande privilegio, ed è importante come scrivere un romanzo, non c’è alcuna differenza. Ricordo una cosa che ha detto García Márquez – lui sì, era davvero un giornalista – cioè che non devi pubblicare niente di cui non sei sicuro, di cui non sei pienamente soddisfatto.

All’inizio del libro fai una sorta di autoritratto comico, cercando di immaginarti nei panni dell’intellettuale.

Quello che ho voluto raccontare nel prologo è la diffidenza mia e della mia generazione nei confronti degli intellettuali, una diffidenza giustificata, eh: quando ero adolescente tutti si erano accorti della frivolezza dell’intellettuale, questo suo essere, come dite voi, una sorta di tuttologo, completamente acritico, che utilizza la voce pubblica per la sua carriera, dogmatico, che appoggia ideologie, dittature. Alla fine, però, che cos’è un intellettuale? È una persona che ha una certa notorietà, nel suo campo, come romanziere, come architetto, come giornalista, e che partecipa al dibattito pubblico. Uno che capisce che politica viene da polis, che significa città, che è di tutti, così come democrazia significa potere del popolo, ed è una cosa troppo importante per lasciarla nelle mani dei politici. Io sono uno scrittore, il mio strumento sono le parole, e le parole hanno un potere straordinario, configurano il nostro mondo, quindi, in quanto cittadino e in quanto scrittore, sento di avere una doppia responsabilità. In Italia sono considerato uno scrittore civile, in due sensi, direi: come cittadino, visto che non abito sulla luna, ma sulla terra; come romanziere, ma non nel senso sartriano, che spesso ha portato a una letteratura pedagogica, propagandistica.

È una cosa che ripeti più volte, che la letteratura smette di essere utile nel momento in cui si propone di esserlo.

Esattamente, la letteratura dev’essere piacere e conoscenza, anche perché senza piacere, senza ironia, senza umorismo, senza divertimento non può esserci letteratura. Utile e dolce, come diceva Orazio.

Nel libro, a un certo punto, dici che il politico dovrebbe semplificare le cose, mentre lo scrittore, solitamente, tende a complicarle. In questi racconti, in queste cronache, come hai fatto a trovare l’equilibrio giusto tra le due parti?

Vedo una contraddizione tra il politico e lo scrittore, sì, e anche tra lo scrittore come intellettuale e lo scrittore come romanziere. Lo scrittore come romanziere non può mai dire sì o no, lui dice sì e no nello stesso momento, questo è quello che Thomas Mann ha chiamato ironia, “il punto cieco”. Le verità nei romanzi sono sempre così, poliedriche, ambigue, contradditorie, Don Chisciotte è pazzo e non è pazzo, è ridicolo ed eroico, allo stesso tempo. È questo che deve fare la letteratura, mostrare la complessità, mostrare l’ambiguità. Lo scrittore come intellettuale, invece, lavora in una forma diversa, deve dire sì o no. Sei a favore dell’aborto? Devi dire sì o no. La guerra in Ucraina ti sembra ingiusta? Devi dire sì o no. È giusto l’assalto di Capitol Hill? Devi dire sì o no. Il politico deve risolvere i problemi, renderci la vita più semplice, il romanziere, invece, deve renderla più complessa, far credere al lettore di avere dentro di sé dei lati oscuri, che non è sempre dalla parte del bene. È una lotta in cui nessuna delle due parti può trionfare, e questa tensione può essere molto produttiva.

Nelle tue cronache durante il periodo della pandemia parli di tante cose, del rafforzarsi del nazionalismo, di alcune parole, come eroe, di cui tutti si riempiono la bocca senza conoscere il significato, del tempo libero che cambia. Adesso, a distanza di quasi tre anni, come percepisci quell’esperienza?

Viviamo in un momento storico paradossale, in cui la memoria viene sacralizzata e allo stesso tempo si dimentica tutto molto facilmente. La storia dell’umanità è la storia delle pandemie, l’ultima grande pandemia è stata l’influenza spagnola, che ha ucciso, credo, quaranta milioni di persone, come la Seconda guerra mondiale. Sulla Prima guerra mondiale, sulla Seconda, ci sono romanzi, film, ma sulla pandemia, sull’influenza spagnola, non c’è praticamente nulla. Il Decameron non è un libro sulla peste, è esattamente il contrario. Non ci sono testimonianze su questi periodi, che vengono dimenticati. Perché non si scrive su questo? Perché non c’è drammatismo, c’è la morte, sì, ma senza epica, mentre la guerra, che è profondamente drammatica, è forse uno degli argomenti più trattati nella letteratura. Oggi nessuno parla più della pandemia, tre anni fa dicevano che sarebbe cambiato il mondo, ma non è cambiato praticamente nulla.

“Ne usciremo diversi”, “ne usciremo migliori”.

Esatto, non siamo cambiati, a parte il lavoro da casa, che è una cosa che comunque doveva succedere.

Visto che è uno dei temi centrali del libro, volevo chiederti un commento sullo stato attuale dell’Europa.

Da una parte abbiamo un grande problema, che si chiama Guerra d’Ucraina, che è una guerra europea. Per la prima volta, dopo la Seconda guerra mondiale, siamo in guerra. Ho incontrato il presidente Macron, gli ho fatto questa semplice domanda: la guerra di Spagna è stata il prologo della Seconda Guerra Mondiale, può la guerra in Ucraina essere il prologo di qualcosa di più grande? Credo che questa sia un’inquietudine che abbiamo tutti, le guerre si sa come cominciano, ma nessuno sa come possono finire. In questi ultimi due anni, poi, ci sono state Brexit, la pandemia, la guerra, tre cose veramente importanti, e L’Europa, nei momenti di difficoltà, nei momenti di crisi, si unisce sempre. E continuo a pensare che l’Europa unita rappresenti il nostro grande progetto, l’unica utopia ragionevole, l’unica cosa che può garantire la pace, la prosperità, la democrazia. Se saremo capaci di farlo, il ventunesimo secolo non sarà quello degli Stati Uniti, della Cina, ma dell’Europa.

Un’ultima domanda, legata al quotidiano, visto che nel libro c’è spazio anche per questo. Come passi le giornate, oggi? Com’è la tua giornata tipo?

Mah, è molto semplice, abito in campagna, in un piccolo paese vicino alla frontiera francese, a un’ora e mezza da Barcellona, sono molto contento di essere qui, non ho bisogno di niente, ho tutto quello che mi serve, la mia libreria, i miei film, la mia musica. Alle sei del mattino vado a correre, poi scrivo per tutta la mattina, e dopo faccio una cosa molto importante, che è la siesta, sono rimasto l’ultimo spagnolo, forse, a fare la siesta. La gente che lavora molto non può non fare la siesta. Si possono vivere due giorni in un solo giorno, lo sai? Tutti i dottori sono d’accordo. E dopo la siesta scrivo, leggo, e la sera guardo un film.






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