Per chi ha seguito la consueta maratona elettorale televisiva, saltellando fra RSI e Teleticino, con una debordante somministrazione di collegamenti, previsioni, dichiarazioni, non sono mancati i colpi di scena, con proiezioni che si sono succedute nel modificare la ripartizione dei seggi per quanto riguarda la rappresentanza ticinese in Consiglio Nazionale: prima tre seggi a Lega e Udc e uno solo al Centro; poi tre seggi a Lega e Udc e uno solo al Plr; e ancora due seggi a Lega e Udc due al Centro e due al PLR, con la costante, in tutto questo gioco al rimbalzo, dei due seggi confermati per l’area rossoverde. Insomma, al centro sta il Centro ed il suo seggio (detto “ballerino”) miracolosamente confermato quattro anni fa da Marco Romano.
Alla fine, arrivano i risultati di Bellinzona, Mendrisio e Lugano: e lo scranno pipidino, volteggiando, svanisce e finisce per premiare ulteriormente il fronte della destra e per mandare a Berna nientemeno che Paolo Pamini, il fiscalista di punta dello sgocciolamento cantonale.
Al di là della questione, certamente cruciale, della suddivisione dei seggi (frutto di calcoli quasi alchemici, che negli studi di Melide palleggiava da par suo – e pour cause – Filippo Lombardi) va comunque detto che nel contesto di una storica propensione alla continuità e stabilità da parte della politica svizzera, in questo caso (e quasi per contrappasso) questa tornata elettorale ha drasticamente risposto a quella del ’19, che aveva visto la sconfitta dell’Udc e il clamoroso successo dei Verdi. Quattro anni dopo, con di mezzo una pandemia, due guerre, il drammatico tema delle migrazioni, le preoccupazioni climatiche sono evidentemente passate in secondo piano, ed hanno prevalso le parole d’ordine e gli slogan populistici della destra. Prova ne è, per quello che riguarda specificamente il Ticino, l’indiscutibile successo elettorale, nella corsa al Consiglio degli Stati, di Marco Chiesa che ha vinto nettamente in tutti i comuni, contro chiunque. Risultato dell’ennesima “alleanza strumentale” fra Lega e Udc, una collaborazione nuovamente fruttuosa elettoralmente anche se segna, al proprio interno un clamoroso rovesciamento di posizioni, con un chiaro tracollo del partito di Via Monte Boglia, battuto dagli udicini persino a Lugano. C’è già da immaginare che alle comunali del prossimo anno se ne vedranno delle belle.
A livello di risultato elettorale ha funzionato anche la congiunzione a sinistra fra PS e Verdi, nel riuscire a mantenere (pur nel crollo dei Verdi) sia il seggio di Bruno Storni che quello di Greta Gysin. Nel “duello interno” (chiamiamolo così) fra i due per gli Stati, ha vinto chiaramente Gysin, che dovrebbe ora essere sostenuta dall’intera area per il ballottaggio.
Ma per questo nuovo appuntamento elettorale di novembre, quando sapremo chi accompagnerà Marco Chiesa alla Camera Alta, la gara pare essere quella fra Fabio Regazzi e Alex Farinelli, rappresentanti dei due partiti “di centro” che dopo la bruciatura di quattro anni fa, correvano (e correranno) separati e in concorrenza, in un contesto che paradossalmente e un po’ comicamente fa dire a tutti e due gli schieramenti “Ah, se avessimo unito le liste!”.
Coerentemente con l’andamento a livello nazionale, anche il Ticino mostra dunque una ulteriore, decisa svolta a destra. In un momento storico come quello attuale, in cui dal punto di vista economico il presunto “ceto medio” è ormai da considerare un panda da salvare solo nei comizi e nei proclami, mentre in realtà per una porzione sempre maggiore di popolazione si declina verso la povertà, la destra avrà ancora maggiori possibilità di dettare un’agenda che sta mostrando a tutti la sua drammatica propensione a favorire le classi più abbienti (fiscalmente, per esempio), quelle che fiduciose e fiduciarie ne finanziano beatamente le campagne elettorali.
Già, perché non si farà nemmeno a tempo a capire cosa faranno Quadri e Pamini fra i banchi del Parlamento federale, che già sarà tutto un tramestìo di nuovi slogan per le prossime comunali. Viviamo ormai in un contesto politico e in un’idea stessa di politica che non possono e non vogliono più considerare alcun aspetto progettuale. Va solo inseguito il consenso, immediato, pronto all’uso per la prossima tornata alle urne. È ancora un “gioco democratico”? E per la sinistra, non è il segno della necessità di cambiare drammaticamente rotta, lasciando i patteggiamenti istituzionali e tornando alla mobilitazione?
Nell’immagine: infografica RSI