La storia della Monteforno rivive in un libro
Sara Rossi Guidicelli, giornalista e scrittrice bleniese, ricostruisce un’emblematica vicenda che caratterizzò la storia industriale ticinese di fine Novecento
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Sara Rossi Guidicelli, giornalista e scrittrice bleniese, ricostruisce un’emblematica vicenda che caratterizzò la storia industriale ticinese di fine Novecento
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Sara Rossi Guidicelli, giornalista e scrittrice bleniese, ricostruisce un’emblematica vicenda che caratterizzò la storia industriale ticinese di fine Novecento
Quella della Monteforno è una vicenda emblematica, ben ricostruita sul portale
https://lanostrastoria.ch/entries/m2bX5PYy7e3: una vicenda che l’ha vista progressivamente confrontata con una concorrenza globale: nel 1973 i titolari di allora decisero di aprirsi ad altri mercati e di costruire una nuova acciaieria negli USA, la New York Steel Corporation, che prospettava redditi di gran lunga superiori a quella ticinese grazie alla continua costruzione, da quelle parti, di nuovi,immensi grattacieli.
Di quel periodo restano in Ticino il ricordo di una fortissima coesione tra operai e popolazione locale in un clima di unità e solidarietà; di una delle lotte sindacali più compatte, in cui spiccava il ruolo delle comunità sarda – da cui proveniva una parte importante degli operai – da decenni proficuamente inseritasi nel tessuto della Bassa Leventina; di una speranza che, sin quasi all’ultimo, ha accompagnato il cammino dell’acciaieria. Numerosi furono i tentativi di mantenere in vita l’azienda e di trovare un nuovo acquirente in grado di subentrare alla Von Roll.
Su quella vicenda torna ora Sara Rossi Guidicelli (laureata in lingua e letteratura russa a Ca’ Foscari di Venezia; oggi responsabile della rivista 3valli, ma che, da giornalista, è stata anche inviata e ha vissuto in Ucraina) nel volume, fresco d’uscita, Quaderno della Monteforno. Un racconto di fabbrica, con fotografie di Claudio Abächerli e Gianni Corridori, Bellinzona, Istituto Editoriale Ticinese, pp. 138, CHF 20.
In realtà, l’idea iniziale dell’autrice era di scrivere un monologo teatrale con cui portare la storia della Monteforno in scena. Non che l’intenzione sia sfumata, anzi quasi certamente vedremo lo spettacolo nel corso del 2025. Nel frattempo, però, gli appunti e i risultati delle ricerche compiute sono diventati il libro che abbiamo fra le mani anche perché, spiega lei stessa, in uno spettacolo si è forzatamente costretti a tagliare molto di quanto era stato raccolto.
Il volume è dunque frutto di ricerche presso l’Archivio di Stato di Bellinzona, ma anche di una serie di incontri e interviste a donne e uomini che quel dramma avevano vissuto sulla loro pelle e che, anche 30 anni dopo, ne portano dentro i segni: oggi, più dell’aspetto economico che aveva colpito le maestranze di allora (molte delle quali costrette a lasciare il Ticino e a tornare ai loro Paesi d’origine), nei nitidi ricordi di mogli e figli e in quelli, più sfumati, dei nipoti, continuano a scavare i contraccolpi psicologici di quello choc.
La Monteforno aveva fatto della Leventina non dirò un Eldorado, una terra promessa, ma certamente un luogo in cui chi decideva di stabilirvisi poteva legittimamente sperare in condizioni migliori di vita. Paradossalmente – ma non poi così tanto nei naturali corsi e ricorsi della storia – quei luoghi di immigrazione metallurgica erano in parte gli stessi da cui, fino a mezzo secolo prima, molti Ticinesi erano partiti per terre lontane in cerca di lavoro e di fortuna: nostri antenati, di cui storici come Giorgio Cheda e altri continuano a tener viva la memoria.
“A me interessa la storia umana, il punto di vista delle persone. Per questo non ho fatto un libro di storia ma un racconto. Certo, ho cercato documenti negli archivi, ho letto libri, ma è stato davvero importante incontrare le persone, ascoltare quello che mi hanno raccontato della Monteforno, che era una fabbrica, ma è diventata come una casa: l’hanno vissuta come fosse loro e alla fine ci tenevano più loro dei dirigenti. Con la chiusura, alcuni sono ripartiti, ma molti sono rimasti e adesso loro, i loro figli e i figli dei loro figli sono Leventinesi” ha spiegato Sara Rossi Guidicelli in un’intervista a Ivo Silvestro (La Regione, 12 settembre 2024).
Il libro ha un precedente nel 2021 quando l’autrice pubblicò Breve percorso alla scoperta della Monteforno, 10 racconti di cui sono protagonisti gli operai della fabbrica. https://www.sardegnamondo.it/svizzera-il-libro-che-celebra-i-40-anni-del-circolo-coghinas-di-bodio/
Quaderno della Monteforno inizia dalla fine, il 31 gennaio 1995. L’attacco è potente: “E qualcuno, l’ultimo giorno, spegne la luce. Una fabbrica, l’ultimo giorno, lavora come il primo, come al solito, a pieno regime. Una fabbrica non si spegne un po’ alla volta: si spegne di colpo. I rumori sono gli stessi, il caldo dell’acciaieria è uguale, asfissiante, ti prende tutto intero. La tuta, quella sera, è sporca come tutti gli altri giorni, il ferro sta sotto le unghie come al solito, la fatica è quella, la conosci. Hai fatto 1’500 tonnellate di acciaio, portando il ferro a 2’000 gradi. Come sempre, per anni. Solo che l’ultimo giorno, dopo il turno qualcuno spegne la luce e lascia il buio. Gli operai vanno a casa, per sempre”.
E ancora, ricostruendo quello che per un’intera Comunità non era soltanto un posto di lavoro, ma anche il mondo della famiglia, degli affetti, della socializzazione, del tempo libero, così descrive l’ultimo, tristissimo martedì: “Vanno a casa i capiforno, i capimacchina i capifossa, i gruisti, i tagliatori, gli addetti alla colata, al carico del forno, al parco rottame, gli smerigliatori, chi lavora ai lingotti e chi alla pulizia dei vagoni; vanno a casa i muratori a caldo, il sostituto del capotreno, le segretarie, gli apprendisti le cuoche e i cuochi, il portinaio, il manovratore I e il manovratore II, il fornaiolo, gli addetti ai treni, i pallettai, il direttore amministrativo e quello tecnico, il responsabile del personale, i pesatori, i cabinisti, il responsabile della sicurezza e l’infermiera. Sgombrano l’armadietto o la scrivania, si chiudono la porta e poi il cancello alle spalle e lasciano lì un pezzo di vita, di casa, di patria, di gioventù: un pezzo di sé”.
A ritroso, si torna alla nascita della Monteforno Acciaierie e Laminatoi SA (acronimo MAL): il fondatore era Aldo Alliata, piemontese, già proprietario di un’acciaieria a Omegna, nell’Alto Cusio, a due passi dal Lago d’Orta, dove nel corso degli anni si erano insediate anche la Bialetti e altri marchi (Caldelroni, Girmi, Alessi) in parte nel frattempo dislocati o in liquidazione. Alliata – si racconta – un giorno fece per salutare un suo operaio indossando dei guanti bianchi. L’operaio gli segnalò di avere le mani sporche, ma il padrone gli rispose: “Guardi che è grazie a quelle mani che io porto i guanti bianchi”.
Di tutta quella vicenda oggi cosa rimane? Rimangono persone e gruppi associativi di diversa natura nati attorno alla fabbrica: il Coro Scam, fondato nel settembre 1963 all’interno dell’acciaieria; l’Hockey Club Cramosina, voluto nel 1976 da un gruppo di giovani appassionati che frequentavano l’omonimo ristorante del Motel Monteforno; il Circolo culturale sardo Coghinas, fondato nel 1980 a Bodio.
Restano, soprattutto, le persone, “quegli uomini e quelle donne, arrivati di notte, molti anni fa, e che adesso a lasciare queste montagne avrebbero nostalgia (…). I loro figli, i loro nipoti. La loro discendenza radicata qui. L’integrazione è stata solida, ha generato nuove famiglie e nuovi cittadini (…). Donne, uomini, bambini e bambine che vivono qui, che vanno a scuola o insegnano nelle scuole, alcuni che stanno nella Svizzera tedesca, altri che fanno i sindacalisti perché sanno cos’è il lavoro (…). Tutta gente, tanta, tantissima, che ormai fa parte di noi, anzi, siamo noi”.
Guarda anche il documentario Monteforno e dintorni. Storie di fabbrica, uomini e soldi, realizzato da Vasco Dones e Silvano Toppi per la RSI nel 1995
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