Le ragioni degli uni e degli altri
E quelle di chi non sa più quali siano le ragioni. O non crede che ce ne siano
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E quelle di chi non sa più quali siano le ragioni. O non crede che ce ne siano
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E quelle di chi non sa più quali siano le ragioni. O non crede che ce ne siano
La guerra, tradotta in notizie da analizzare attentamente nella loro vera o presunta valenza propagandistica, sottoposte all’analisi dei debunker (quando ci si riesce o lo si vuole) e poi messe in circolo fra testate e studi radiotelevisivi, diventa terreno di confronto (a volte di scontro) fra interpretazioni ed analisi passate al setaccio della Storia, per cercare di “raccontare” le atrocità che si stanno perpetrando in Ucraina.
La guerra è un evento tragico su cui ci si interroga, quotidianamente, affidandosi alle competenze di professionisti (giornalisti, storici, diplomatici, strateghi militari) che fanno tutti il proprio mestiere, certo, ma che chissà perché, ad un certo punto, finiscono per non intendersi per nulla, e per non riuscire più a discutere quasi su nulla, barricati dietro a “visioni” che paiono progressivamente ed inesorabilmente, escludere ogni altro punto di vista.
In questo fenomeno, che è sotto gli occhi di tutti, ha probabilmente una notevole responsabilità una sorta di “drammaturgia” (quando non “liturgia”) del dibattito mediatico e mediatizzato, che non è sempre, né necessariamente, coincidente con il “dibattito democratico”. I mezzi di comunicazione di massa, lo sappiamo bene, hanno loro meccanismi di funzionamento, fra cui, sempre più negli ultimi anni, vi è quello, appunto, del “dibattito”, in cui occorre anzitutto che vi siano opinioni contrastanti che proprio nel momento del confronto facciano scattare la discussione accesa, nutrita di controversie e di duelli dialettici.
Una sede mediatica, che sia un giornale, una radio, una televisione, non è più un collettore di opinioni messe una accanto all’altra affinché chi legge o ascolta, possa metterle a confronto per farsi una propria personale opinione che abbia a che fare con il merito degli argomenti, ma piuttosto è diventato il contesto dentro cui ci si oppone, più o meno strenuamente, utilizzando (più o meno in buona fede e con assoluta convinzione) strumenti retorici “convincenti”, possibilmente “ad effetto”, perché è quell’”effetto”, che finisce per risultare decisivo nell’accoglienza delle posizioni da parte del pubblico.
Il medium costringe ad una narrazione che per affermarsi ha bisogno di contemplare una serie di presunte “antitesi”, al fine di arrivare alla “sintesi” di un discorso che si è preliminarmente deciso di “far passare”. Quelle opposizioni, quelle “antitesi” sono funzionali alla tesi, e dunque devono, ben presto, proporsi nella loro “incoerenza”, nella loro “pretestuosità”, nella loro “irricevibilità”.
Si badi bene, è un assunto che vale in generale, e per tutti, o quasi. Siamo di fronte ad un evento crudele, scatenato crudelmente dal governo di un paese, la Russia di Putin, contro un paese più che confinante, l’Ucraina di Zelenski. Punto. Da qui via si è ben presto arrivati a schieramenti contrapposti che non ammettono né deroghe né sfumature: è colpa di Putin che, di conseguenza, va battuto con le armi (le sue stesse armi, verrebbe da dire); oppure è colpa della NATO e dell’America che hanno da sempre armato l’Ucraina (e un po’ tutti gli alleati) e che ora costringono l’Europa (che ne sia consapevole o meno) alla logica inesorabile della guerra e dei morti.
Da una parte stanno i guerrafondai filoamericani, dall’altra i pacifisti filoputiniani, tendenzialmente tutti a dirsi che che si tratta di una guerra scoppiata come “estrema conseguenza”… dei propri argomenti. Argomenti, per definizione, impermeabili a qualsiasi dubbio. Da una parte e dall’altra.
Eppure ci sono anche i “dubbiosi”: stanno, tendenzialmente, fra coloro che la guerra proprio non la capiscono e non l’accettano, e per questo vien detto loro che sono dalla parte dell’aggressore, inesorabilmente. Fra essi, nel panorama italiano, c’è Marco Tarquinio, direttore del quotidiano cattolico “L’Avvenire”, che nei giorni scorsi è intervenuto ad un evento pubblico intitolato “Pace proibita” indetto da un Michele Santoro cui non fa difetto, certamente, l’arma della retorica, che condivide con personaggi ed opinionisti variamente estremisti.
Non è però il caso di Tarquinio, che su una zattera, la nostra, che prova ad essere sede di confronto e riflessione, merita di essere letto o ascoltato poiché pone la questione del “pacifismo” in quanto tale, senza ricorrere a strumentazioni rapidamente classificabili né come filo-NATO né, men che meno, come putiniane. Si interroga, semplicemente, sulle “ragioni del pacifismo”. In modo speriamo utile e interessante, che si può leggere nella trascrizione qui sotto, o seguire in video.
Di Marco Tarquinio, L’Avvenire
Dicono che per far finire la guerra bisogna fare più guerra. E a noi che diciamo che non è vero, che guerra più guerra in Ucraina e ovunque significa solo un più grande massacro di vite umane e di verità, ribattono: e allora come lo fermate, voi, Putin? Lo fermate con le preghiere e le marce per la pace? Con le carovane di pacifisti, le missioni della Caritas che portano cibo e medicine in Ucraina e riportano in salvo i disabili e ancora altri profughi? Lo fermate con la diplomazia degli smidollati disposti a parlare con il «criminale del Cremlino»? Lo fermate con le buone intenzioni e con le buone azioni che le nonne, le madri e le maestre insegnano ai bambini: “Ricordati, quando due si picchiano, ha ragione solo il primo che smette”?
Già, la guerra è cosa da grandi, da uomini veri. (Pensateci: dove sono finite le foto delle bambine col fucile e dei ragazzini d’Ucraina con le molotov? Evaporate con i massicci rifornimenti di armi da adulti. Pensateci: dove sono finiti i ragazzi russi di neanche vent’anni, «partiti soldato e non ancora tornati», come canterebbe De Gregori, perché morti al fronte? Ragazzi dei quali le madri cercano invano qualche notizia mentre i loro corpi non vengono accettati indietro dai generali di Putin).
Già, la guerra è cosa da grandi. E la pace è roba da piccoli, da bambini. Per questo non ne facciamo più di bambini, noi come i russi. E facciamo le guerre, i russi come noi. Magari per procura. Le guerre attraverso gli altri. Costi quel che costi. Se necessario – constatazione dolente e amarissima di Jeffrey Sachs – «fino all’ultimo ucraino». Parole terribili, che potrebbero stare in bocca all’uomo del Cremlino e stanno in testa agli strateghi, d’occidente e d’oriente, della nuova guerra fredda.
Una volta si diceva “Dio lo vuole”, oggi qualcuno si azzarda ancora a dirlo, ma ormai basta dire “il popolo lo vuole”, anzi quel popolo lo vuole. Assolutamente lo vuole. E anche questo è populismo, e della peggior specie.
Guerra più guerra, allora, non per “resistere” non per “liberare”, ma per “vincere”, e a quel punto, solo a quel punto, far finire finalmente la nuova e atroce tappa dell’eterna guerra dei grandi che distrugge la vita e la pace dei piccoli.
No, mille volte no. Ma noi, che vogliamo pace e chiediamo tregua immediata, come lo fermiamo Putin? Noi che diamo ascolto a papa Francesco che chiama i giochi di potere «follia», il riarmo una «vergogna» e la guerra «sacrilega». Noi che prendiamo esempio da Gandhi, King, Mandela, Capitini e Tonino Bello (anche se è quasi tutta gente morta ammazzata o troppo giovane). Noi che crediamo in una resistenza nonviolenta persino alla guerra dei carri armati. Noi che ci emozioniamo e ci mobilitiamo per non lasciar soli i Nastri Verdi dei coraggiosi e disarmati obiettori russi al regime di Putin. Noi che ci entusiasmiamo per gli ucraini che affrontano con pura voce, mani alzate e bandiere giallo-blu le colonne militari venute da est.
Non so più quante volte ce lo hanno chiesto: “voi che vi dite nonviolenti, come lo fermate Putin?”
(Lo stesso Putin che attraverso i suoi scherani ha sostenuto – ma questo glielo rinfacciamo in pochi – la “nave nera” che nel Mediterraneo ha dato in lungo e in largo la caccia a chi soccorre i profughi dalla pelle scura, scappati da altre guerre che magari armiamo, ma preferiamo non vedere e non riconoscere).
Scusate. Ma voi, voi altri, voi che avete l’unica risposta – la guerra – e tutte le armi, tutte le strategie e tutti i calcoli giusti, lo avete forse fermato il signor Putin? O vi state facendo suoi soci nella nuova guerra dei mondi? Diteci come lo fermate voi che vorreste proibirci anche solo di dire che una Terra più piena di armi non è un posto sicuro, ma è un mondo che non sa vivere la pace e dunque si prepara a far perdere all’umanità la prossima guerra.
Quando ero giovane, mi ero piazzato davanti agli occhi, sulla scrivania, una frase di Leo Longanesi «Quando potremo scrivere tutta la verità, non ce la ricorderemo più». Era un monito. L’ho tolta, ormai da parecchio tempo. Il tempo di dire la verità è sempre adesso. Nessuno ha la verità in tasca, e la verità è una strada, ma ci sono verità semplici. Gli eroi sono quelli che non uccidono. E guerra più guerra non fa pace.
La maggior parte delle diocesi svizzere non applica più, o solo parzialmente, le disposizioni sulla soppressione dei documenti relativi agli abusi. Il vescovo Felix Gmür, ha...
I palestinesi temono ciò che certi ministri di Netanyahu non nascondono: una seconda “Nakba”, come quella che nel 1948 espulse anche con la forza dell’esercito israeliano circa...