L’Occidente comincia dall’Est e la cortina di ferro è una ferita aperta
Un saggio di Micol Flammini ripercorre la storia della “Nuova Europa”: Ucraina, Polonia, Paesi Baltici, Balcani. Lì ci sono le ragioni della guerra di Putin
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Un saggio di Micol Flammini ripercorre la storia della “Nuova Europa”: Ucraina, Polonia, Paesi Baltici, Balcani. Lì ci sono le ragioni della guerra di Putin
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Un saggio di Micol Flammini ripercorre la storia della “Nuova Europa”: Ucraina, Polonia, Paesi Baltici, Balcani. Lì ci sono le ragioni della guerra di Putin
Per anni, nei discorsi che se ne facevano – non spessissimo – in Europa, erano rimasti “i Paesi dell’Est”. Una definizione geograficamente e politicamente confusa, ma sottilmente sprezzante, che infilava mondi diversi in un unico pregiudizio di nomi impronunciabili, storie sanguinose, confini mobili, povertà infelice e memoria cancellata. Era la “nuova Europa”, come l’aveva definita gelidamente Jacques Chirac, la metà perduta del continente, recuperata malvolentieri oltre la cortina di Ferro dopo la caduta dell’Urss.
Non era stato solo George W. Bush a confondere Slovenia e Slovacchia: per molti nella “vecchia Europa” i Paesi dell’Est, le ex colonie sovietiche, erano apparsi più un problema che una soluzione, con i loro contrasti, la loro faticosa modernizzazione, e soprattutto con quella angoscia di venire fagocitati dal grande vicino d’Oriente che l’Europa della fine della storia considerava una ossessione. Quando l’invasione russa in Ucraina ha fatto ripartire violentemente le macine della storia, pochi hanno avuto il coraggio di ammettere che la “nuova Europa” non soffriva di paranoia, ma aveva avuto ragione e visto lontano. E che per capire l’Est bisognava osservare il mondo come lo si vede da Praga e Kyiv, Varsavia e Budapest, Minsk e Belgrado.
Quello che ha fatto Micol Flammini, la giornalista del Foglio che l’Europa Orientale l’ha vissuta, studiata, sperimentata, che ne parla le lingue e ne ha ascoltato le voci. Nel suo primo libro La cortina di vetro (Mondadori), ci sono le storie dell’Est che ha raccontato per anni, e il fallimento della “nuova Europa” che non è riuscita a trasmettere all’Occidente quel “senso d’urgenza” di fronte a un Cremlino “vorace e invasivo”. Una conoscenza dettata dalle “trappole della storia”, dalla memoria di chi, come Varsavia, già nel 1945 “aveva la certezza di essere passati da un’occupazione all’altra” e di essere stati “abbandonati” nella spartizione dell’Europa, un pezzo della quale sarebbe andato in premio a Stalin.
Nel 1989, «Bruxelles e Washington si illudevano di aver cancellato la cortina di ferro», mentre le capitali dell’Est – che non riuscivano a dimenticare la strage di Katyn’ e i carri armati a Budapest e Praga, il Muro di Berlino e il Holodomor – «sapevano bene che la stavano solo spostando» e che l’obiettivo, in questa tornata della storia, era di «non finire mai più dall’altra parte». La Russia aveva «continuato a percepire il collasso del suo mondo come un’umiliazione e un’ingiustizia, afflitta da una nostalgia che nessun altro pezzo dell’ex Urss provava, e in una terra dove più i conflitti rimangono a covare, più rischiano di deflagrare in modo devastante» era una corsa contro il tempo.
Ora che la propaganda di Mosca rivendica come “territori storici” l’Ucraina, la Polonia e il Baltico, Flammini ricorda agli appassionati di “geopolitica” convinti che i “Paesi dell’Est” siano condannati a essere eterne pedine del risiko traRussia e Germania, come la liberazione dell’Europa Orientale fosse stata anche una rivolta anticoloniale. L’impero sovietico era stato messo in crisi dalla protesta di Solidarnosc – nata in quella Danzica che è stata al centro della storia del Novecento, e che sui cancelli dei suoi leggendari cantieri ha scritto “Qui inizia l’Europa” – come dalla “rivoluzione canora” dei baltici, con la catena umana che aveva visto centinaia di migliaia di lettoni, lituani ed estoni prendersi per mano il 23 agosto 1989. E il progetto restauratore di Putin era stato respinto dai Maidan di quell’Ucraina che era riuscita a trovare la formula magica dell’antidoto postsovietico nel sogno di una nazione democratica ed europea, come dalla piazza di Minsk, nella martoriata rivoluzione dal volto di donna del 2020.
Una storia tormentata, ancora presente e irrisolta: la premier estone Kaja Kallas, una delle più strenue alleate dell’Ucraina che combatte, è nipote di dissidenti deportati in Siberia, mentre alla guida della cancelleria di Putin c’è Anton Vajno, il nipote del leader comunista che aveva consegnato la libertà dell’Estonia a Mosca. Ma la storia non è soltanto una condanna: i giovani russi nel Baltico ritengono la guerra di Putin contro l’Ucraina una mostruosità e non vivono la loro identità in antitesi a quella dei popoli che i loro nonni erano venuti a colonizzare. Flammini parla di «popoli imperdonabili e popoli perdonati», di un processo di elaborazione che non propone di «dimenticare il male», ma di capire che «le nazioni possono cambiare, che la storia può ammettere un’evoluzione». A condizione di conoscerla e di «assumersene la responsabilità».
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