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Dirsi femminista sembrerebbe ancora essere un atto trasgressivo. In generale non ti rende simpatica, sui social attiri il peggio degli insulti e in talune cerchie politiche evochi fantasmi di castrazione.

È anche vero che non esiste “il” Femminismo. Piuttosto ci sono diversi femminismi che possono essere ricondotti a teorie differenti. Alcuni si occupano soprattutto degli aspetti egualitaristici ed emancipatori, ad esempio con le battaglie sui diritti o quelle per la rappresentanza nei governi e nei parlamenti; altri femminismi sono invece fondati sulla differenza costitutiva dell’esperienza di genere, e tendono a dare una lettura più radicale e partecipativa dell’azione femminista. Inoltre, a partire dall’attivista americana Angela Davis il femminismo ha forzatamente dovuto confrontarsi con la dimensione dell’intersezionalità, con la quale si intende che la stessa donna può subire diverse forme di oppressione, come quelle di genere, razza, classe, orientamento sessuale, disabilità. L’esperienza di oppressione e discriminazione di una donna povera, di colore, migrante e disabile non può certo essere profondamente compresa e inclusa nelle istanze paritarie di una donna bianca eterosessuale e di estrazione borghese.

Nonostante forme organizzative e approcci differenti, non si può tuttavia misconoscere il potente influsso che l’attivismo femminista ha prodotto nella quotidianità negli ultimi 50 anni.

Non mi riferisco unicamente alla dimensione dei diritti che, seppur fondamentali e frutto di lotte collettive ancora oggi necessarie, non possono rappresentare l’unico orizzonte dell’azione politico-sociale. La capacità delle pratiche femministe è piuttosto quello di dare visibilità a fenomeni in precedenza misconosciuti o tollerati, e di fornire cornici di comprensione di manifestazioni umane complesse.

Termini come femminicidio, intersezionalità, consenso (nelle relazioni sessuali), sessismo in tutte le sue declinazioni, violenza di genere, molestie, stalking, violenza strutturale, sopravvissuta, sono diventate forme per enunciare “cose del mondo” troppo spesso tollerate. Queste nuove parole all’inizio sembravano anomale, inopportune. A volte venivano addirittura rifiutate, ma hanno reso riconoscibili fenomeni che in precedenza passavano inosservati. Altri termini, soprattutto inglesi, si sono poi fatti strada nel panorama femminista. Oltre a #METOO, che ha segnato l’avanzata di un’onda d’urto internazionale a tutti i livelli, a corollario sono arrivati catcalling per indicare le molestie per strada e una serie di termini per raccontare gli abusi perpetrati tramite social, come il revenge porn (inteso come forma di vendetta per la rottura di una relazione attraverso la condivisione pubblica di immagini o video intimi). Quello che preferisco però è mansplaining, parola coniata dalla scrittrice e giornalista Rebecca Solnit per indicare (o smascherare) la tendenza paternalista di alcuni uomini (e non solo) che vogliono spiegare a una donna, in modo condiscendente e semplificato, qualcosa di ovvio, o addirittura qualcosa di cui l’interlocutrice è esperta. È riconoscibile da frasi del tipo “lascia che ti spieghi…” oppure il più generico “voi donne dovreste capire che…”. E quante volte mi/ci è capitato di sentire frasi del genere durante la preparazione dello sciopero del 1991, ma anche di quello del 2019. Succede anche, per estensione, quando comitati completamente maschili (con al massimo una rappresentante alibi) spiegano a noi donne i vantaggi dell’aumento dell’età pensionabile, oppure cercano di convincerci che non è necessario adottare sanzioni contro la disparità salariale, o quando i Consiglieri di Stato, tutti uomini, ci spiegano come combattere la violenza sulle donne.

Tutte quelle elencate non sono solo parole, e neppure “dettagli in cui non rimanere impantanati”, come ha affermato Ueli Maurer durante il discorso del 1° agosto di quest’anno, ma sguardi e modi di agire nel mondo. Le resistenze che suscitano ci mostrano la loro forza rivoluzionaria, di cui possiamo andare fiere. Nel contempo dobbiamo continuare ad essere vigili, affinché non venga sottratta loro densità di significato.

Se a termini come violenza strutturale non segue la consapevolezza della disuguaglianza di poteri nelle relazioni abusanti, l’ascolto e l’accompagnamento di una vittima resterà solo una misura, e non una pratica di liberazione. Comprendere la complessità è necessario per rendere giustizia ai racconti delle vittime, perché dobbiamo ricordare che è proprio la paura di non essere credute, se non addirittura colpevolizzate per non aver agito prima, che congela la capacità di cambiare rotta alla propria vita.

Le nuove parole quindi contano, specialmente oggi.

  • Segnaliamo che a partire da oggi sono previsti in Ticino “16 giorni di attivismo contro la violenza di genere“, con una serie di eventi e manifestazioni sul tema. In particolare, il 10 dicembre presso il Teatro Sociale di Bellinzona andrà in scena lo spettacolo teatrale «Doppio Taglio. Come i media raccontano la violenza sulle donne».
  • Ricordiamo inoltre che il 21 novembre scorso Amnesty International, Opération Libero e  altre organizzazioni partner che la sostengono hanno consegnato alla Cancelleria federale  la petizione con la quale più di 40’000 persone chiedono al Parlamento di iscrivere la soluzione del consenso (“Solo Sì significa Sì “) nel nuovo codice penale in materia di reati sessuali.






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Pepita Vera Conforti
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