Ruth Dreifuss – Per non farla morire, la democrazia va continuamente migliorata
Breve incontro locarnese con una donna impegnata da sempre
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Breve incontro locarnese con una donna impegnata da sempre
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Breve incontro locarnese con una donna impegnata da sempre
Ruth, cominciamo subito con una domanda impegnativa. Secondo te come sta la democrazia in questo periodo?
Credo che ci siano due cose da dire sulla democrazia. La prima è che le democrazie che conosciamo non sono perfette, e per molti versi non abbastanza democratiche. Prendiamo l’esempio della Svizzera, dove un quarto della popolazione [gli stranieri, ndr] non può partecipare alle decisioni pur lavorando, pagando le tasse e avendo anche radici in questo paese. E direi anche che la democrazia non è semplice, perché molto spesso si pongono quesiti a breve termine, per esempio questioni urbanistiche. Chi ha ragione fra coloro che vogliono salvare una zona boschiva e coloro che ritengono più importante costruire case popolari? A volte è molto difficile per i cittadini fare scelte di questo tipo, che vanno inserite in una visione a lungo termine. Dobbiamo riconoscerlo, la democrazia che conosciamo e amiamo non è perfetta. Dobbiamo continuare a cercare di evidenziare dove è insoddisfacente, e pensare a come migliorarla. Inoltre questa democrazia imperfetta è minacciata, combattuta, incontra terribili opposizioni nel mondo. Basta vedere cosa sta succedendo nell’Europa dell’Est. Per non parlare dell’America Latina, del Brasile o delle Filippine di Duterte. La democrazia è sotto attacco anche in paesi che pur hanno avuto, se non una democrazia consolidata, almeno un’aspirazione alla democrazia: Turchia, Polonia, Ungheria, ecc. Recenti rivoluzioni sono state fatte in nome della democrazia, che però ora viene messa in discussione. Quindi direi che stiamo vivendo un periodo estremamente difficile, con una diffusione crescente del populismo e del nazionalismo, che come sappiamo sono stati un veleno per le democrazie nel XX secolo.
In Svizzera si sta parlando di doveri per le donne, in nome della parità. Pensiamo al servizio militare, all’aumento dell’età pensionabile, eppure in termini di diritti non siamo ancora a un livello che possiamo definire soddisfacente. In che modo le donne, soprattutto le giovani, possono modificare questo stato di cose?
I diritti delle donne non sono ancora pienamente realizzati, ma non nel campo del diritto. I cambiamenti nelle leggi in larga misura sono stati fatti. Ciò che manca terribilmente è l’attuazione di queste leggi nella vita quotidiana. Non si tratta più di legiferare, piuttosto di fare in modo che i tribunali risolvano i conflitti tra la legge e la realtà. Inoltre occorre far evolvere mentalità ancora assolutamente ancorate a una visione della donna completamente superata. È vero però che su alcune questioni, come quella dell’età pensionabile per le donne o, per esempio, l’obbligo del servizio militare o civile, le leggi continuano ad essere diverse per gli uomini e per le donne. Quindi capisco la necessità di portare il dibattito anche su queste leggi, per cambiarle o per mantenerle. Ma è proprio, direi, la contraddizione tra le leggi e la realtà il problema principale. Quando le leggi sono state cambiate erano portatrici di promesse, per esempio l‘attuazione della parità di salario, ma queste promesse non sono state mantenute, mentre allo stesso tempo si pretende che in altri settori le donne accettino sacrifici senza compensazione.
Negli ultimi scioperi delle donne e negli attuali movimenti femministi le donne più giovani sono impegnate in battaglie che non si giocano sul piano della legge, ma a livello della realtà, a volte della realtà più intima, quella del rapporto con la famiglia, quella del rapporto con i figli, o per infrangere il soffitto di vetro, e avere la possibilità di accedere a lavori che teoricamente sono aperti a tutti, ma che in pratica non lo sono. Quindi penso che questo sia un progresso. In una certa misura, direi che la generazione più giovane si sta concentrando sulla realtà quotidiana che le donne vivono, piuttosto che sulle questioni legali. Ma naturalmente il pericolo è che si allontanino dalla politica, che non si sentano coinvolte dai dibattiti politici odierni, spesso legati a ciò che il Parlamento può decidere o può voler fare, e che potrebbe far arretrare la causa delle donne.
Anche dopo aver lasciato il Consiglio federale sei rimasta attiva. Ci hai parlato delle tue battaglie contro la pena di morte e di molte altre cause in cui sei tuttora impegnata. Puoi raccontarci di cosa ti stai ancora occupando?
Purtroppo c’è una certa tradizione legata al nostro sistema politico in Svizzera, e cioè che chi esce dal Consiglio federale generalmente si ritira dalla politica svizzera per un po’, se non per continuare come militante di base. Cosa questa che io faccio molto, molto volentieri soprattutto nel mio cantone [Ginevra, ndr]. Ma non si partecipa tanto al dibattito pubblico nazionale, tanto più che per me questo significherebbe spesso oppormi alle decisioni del Consiglio federale. E poi, scherzando, dico: “Ho avuto dieci anni per fare le cose stupide che volevo fare. Ora tocca ad altri farle. Non sta a me criticarli”. Quindi non sono molto attiva in Svizzera, tranne che per una questione che mi ha sempre occupata molto. O meglio, due questioni. Una è la politica sanitaria, che per me rimane assolutamente essenziale. La lotta, direi, di una vita. E l’altra, anch’essa una lotta di tutta la vita, è il miglioramento dello statuto degli stranieri in Svizzera, della condizione dei sans papier, della politica d’asilo. Quindi ho riorientato il mio impegno a livello internazionale, ritornando sul percorso che mi aveva vista da giovane. Infatti sono stata molto attiva nelle questioni dell’apartheid, della guerra del Vietnam, ecc. L’angoscia della seconda guerra mondiale e della Shoah è stata assolutamente decisiva anche nelle mie scelte politiche. Così ora sono attiva a livello internazionale in particolare attraverso due commissioni, nelle quali posso dire di avere un ruolo anche fra i leader. Una si occupa della riforma delle politiche sulle droghe, semplicemente perché la mia esperienza in Svizzera su questo tema deve essere condivisa. Adesso mi rendo conto che sebbene la Svizzera sia stata un pioniere [politica dei quattro pilastri in materia di dipendenze: prevenzione, trattamento, riduzione del danno, regolazione, ndr], oggi non lo è più e dobbiamo continuare a sviluppare nuove iniziative. Sono convinta che in materia di depenalizzazione e di regolamentazione dei mercati della droga è lo Stato che deve decidere, non i gruppi criminali.
Sono molto impegnata anche contro la pena di morte in una commissione internazionale. Ho anche un ruolo in commissioni internazionali sui problemi legati all’accesso ai farmaci in relazione alla proprietà intellettuale, con l’obiettivo di eliminare le barriere che impediscono a chi ne ha più bisogno di ottenere le cure indispensabili.
È un lavoro di advocacy [patrocino, ndr], che mi ha portato a viaggiare molto, almeno, prima del Covid, per incontrare autorità, per fare da ponte tra le ONG nazionali e le autorità di diversi paesi, per spingere le riforme in un settore o nell’altro. Dopo il Covid abbiamo concentrato le nostre attività tramite internet e abbiamo scoperto tutta una serie di possibilità di utilizzo di questi strumenti. Non vedo l’ora di poter riprendere il lavoro di advocacy in presenza, anche perché l’aver assunto nel 1999 il ruolo di presidente della Confederazione colpisce molto le autorità e i responsabili degli altri Paesi. In Svizzera siamo meno impressionati, ma l’essere stata in Consiglio federale per 10 anni consente di aprire porte e incontrare autorità altrimenti inaccessibili, e permette di aprire porte anche ad altri. È un lavoro che mi piace, e nelle due aree in cui sono più attiva al momento vedo anche dei progressi. Solo quest’anno quattro o cinque Stati hanno rinunciato alla pena di morte, negli Stati Uniti e in Africa. Nel campo delle droghe abbiamo fatto molti progressi nella regolamentazione del mercato della cannabis. Questo anche in Svizzera, dove saranno avviati dei progetti pilota. Vediamo progressi davvero significativi in queste due aree. Ci sono anche, ovviamente, Paesi che rischiano di rimettere in discussione tutto questo, ma possiamo lavorare con una capacità di mobilitazione che è grande nei paesi più toccati.
Il problema che mi preoccupa di più in questo momento è quello dell’accesso alle medicine. Naturalmente, il Covid mostra la misura in cui il mondo è attraversato da discriminazioni, ingiustizie e disuguaglianze terribili e mortali. Nel vero senso della parola: mortali. Cerco di dare un piccolo aiuto a Public Eye, per esempio, nella sua campagna, e di prendere posizione pubblicamente affinché la proprietà intellettuale, i brevetti, non siano di ostacolo alla produzione dei vaccini e dei farmaci contro il Covid. Questa è una battaglia che non va abbandonata perché l’ingiustizia più terribile senza dubbio è la diseguaglianza di fronte alla morte e alla malattia. La gente muore in paesi in cui a volte basterebbero pochi franchi per ottenere le medicine necessarie per vivere. Questo è lo scandalo più grave, secondo me.
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