Turchia alle urne, fine del regno Erdoğan?
Dopo due decenni di potere, il ‘sultano’ rischia; l’unità di tutta l’opposizione laica premiata nei sondaggi
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Dopo due decenni di potere, il ‘sultano’ rischia; l’unità di tutta l’opposizione laica premiata nei sondaggi
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Dopo due decenni di potere, il ‘sultano’ rischia; l’unità di tutta l’opposizione laica premiata nei sondaggi
Ci arriva sfibrata, la Turchia, alle urne di domenica prossima. Sfibrata da una pesante crisi economica, da un recente e feroce terremoto, da una continua compressione dello stato di diritto, da un progetto di neo-ottomanesimo che esaspera i peggiori istinti nazionalistici, da ambizioni militari che ne prosciugano le casse statali. Soprattutto, da un Erdoğan che non è più l’Erdoğan del primo decennio: quando si presentava, sotto mentite spoglie (dichiarando in privato che “la democrazia è solo un taxi per portare l’islam al potere”), come il primo “rais” che avrebbe fatto convivere la fede in Maometto e le libertà individuali; quando si proponeva come modello virtuoso agli occidentali inquieti e sospettosi all’idea di aprirgli le porte dell’Europa unita; quando sembrava ancora fedele e solido baluardo della Nato (con il secondo esercito per importanza dell’Alleanza Atlantica) alle calde frontiere con Russia e Medio Oriente.
Tempi lontani. Nel suo secondo decennio – prima come capo del governo, quindi come presidente della Repubblica – il sultano di Ankara si è mosso su un piano sempre più inclinato: gestione personale e dilettantesca dei meccanismi economici, spinta all’islamizzazione della società turca “laicizzata” un secolo fa da Kemal Atatürk, pesanti attacchi a molti leader dell’inospitale Unione europea (“Merkel nazista”, arrivò a dire), doppiogiochista diplomatico ancorato alla NATO ma acquirente di missili dalla Russia di Putin, decine di migliaia di arresti fra gli oppositori soprattutto dopo il mai chiarito “putsch” militare del 2016. Eppure un Erdoğan di cui l’Occidente ha bisogno: che si tratti di tenersi in casa (incassando fior di miliardi da Bruxelles) oltre tre milioni e mezzo di profughi siriani altrimenti destinati a inoltrarsi lungo le rotte balcaniche verso il vecchio continente, o dell’accordo sul grano ucraino (unica intesa fra Mosca e Kiev in quindici mesi di guerra) dando lustro al suo ruolo di saltuario mediatore nell’atroce conflitto in corso. Cangiante mosaico, che sul piano interno ha prodotto una divisione, una spaccatura, che divide il paese quasi perfettamente in due.
Perché su questo concordano i sondaggi: fra quattro giorni il voto per la presidenza (che l’“uomo forte” vorrebbe conquistare per la terza volta) e per il parlamento (oggi maggioritariamente in mano al suo partito islamico-conservatore della Giustizia e dello Sviluppo) consacrerà la profonda faglia politica che attraversa il paese, metà e metà, con lui o contro di lui. Fenditura lungo la quale si giocherà di misura il destino del paese. Elezione finalmente “contendibile”. Non era mai successo in vent’anni che l’ex “uomo del miracolo turco” rischiasse di perdere il potere assoluto, dopo il monito del 2019, quando la guida delle grandi città (anche Istanbul e Ankara) passò ad amministratori dell’opposizione laico-repubblicana. Che ora prova a togliergli lo scettro supremo, quello con cui Erdoğan ha trasformato la Turchia in regime pressoché presidenziale: poteri ampissimi, istinti e pratiche liberticide. Ha di fronte un rivale che più diverso non si potrebbe: l’economista Kemal Kılıçdaroğlu, persona mite, modi cortesi, toni misurati e ferree convinzioni (convinto che il timone vada decisamente spostato in direzione Ovest), definito “il Gandhi turco” benché erede di quell’Atatürk che benevolo proprio non era. Un tessitore, Kılıçdaroğlu, un alevita (minoranza musulmana in passato anche perseguitata) che ha compiuto il mezzo miracolo di formare una Coalizione per la Nazione che raccoglie tutta l’opposizione, in sostanza anche quella curda, la più martoriata dall’autoritarismo del regime, e che da sola rappresenta il 10 per cento dell’elettorato. Insieme contro il sultano. Con qualche chance di superarlo, se non al primo turno forse nel ballottaggio.
Si sa, anche per temperamento Erdoğan non è personaggio da arrendersi facilmente; inoltre ha ai suoi ordini un importante apparato statale (magistratura compresa); può manovrare servizi in grado di esercitare pressioni, favorire scorrettezze, promuovere brogli, e molti credono sia disposto a molto (a tutto?) pur di ottenere la conferma ai vertici dello Stato; e a pochi giorni dall’apertura delle urne ha annunciato un generosissimo aumento salariale del 45% per tutti i dipendenti pubblici, un autentico esercito (più complicato il discorso sull’esercito che sta nelle caserme, forze armate obbedienti ma non necessariamente fedelissime dopo essere state declassate dal loro passato ruolo di “suprema garanzia”).
Una generosità assistenziale, quella del sultano, che dice tutto dei suoi timori. L’inflazione ufficiale ad oltre il 50% (quella reale anche di più), la forte svalutazione della moneta nazionale, il salasso sul potere d’acquisto della popolazione, il controllo di gran parte dell’informazione (la Turchia è la nazione al mondo col più alto numero di giornalisti in carcere), le critiche dopo il devastante terremoto del 6 febbraio scorso (ritardo dei soccorsi, e soprattutto il crollo di numerosi palazzi fragilizzati dalla folle corsa liberalizzatrice dell’edilizia, dal materiale inadeguato, dalle violazioni delle norme anti-sismiche, dal gran business di molti famelici sodali del presidente). Tutto questo ha creato un terreno fangoso su cui Erdoğan rischia di scivolare. E che, considerate le possibili conseguenze geo-strategiche, interroga tutte le cancellerie occidentali. “Forse non si apriranno le porte del paradiso – scrive la regista in esilio Ece Temelkuran -, ma almeno si chiuderebbero quelle dell’inferno”. Sempre che i suoi rivali siano in grado di governare una successione rischiosissima. E sempre che il megalomane che ad Ankara ha fatto costruire un palazzo presidenziale faraonico (oltre duecento stanze), accetti un simile verdetto da quello che è un autentico referendum. Sulla sua persona, sulla sua politica, sulle sue ambizioni, sulle sue derive autoritarie.
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