Una storia del Seicento, raccontata nell’Ottocento in una lingua italiana che è (ancora) la nostra
Rileggendo “I Promessi sposi”, a centocinquant’anni dalla morte di Alessandro Manzoni
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Rileggendo “I Promessi sposi”, a centocinquant’anni dalla morte di Alessandro Manzoni
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Rileggendo “I Promessi sposi”, a centocinquant’anni dalla morte di Alessandro Manzoni
«Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni.»
Questo, con quello della Divina Commedia, è senz’altro l’incipit più famoso di tutti i libri italiani; lo sanno molto bene intere generazioni di studenti che hanno dovuto fare i conti con i Promessi sposi: un classico ineliminabile dal programma educativo. Quando Manzoni scriveva, l’Italia non era né unificata né possedeva una scrittura narrativa. Dunque, avendo trovato un autografo del 600, anonimo, contenente una storia così bella da non aver saputo resistere alla tentazione di farla conoscere, Manzoni si pose come primo problema quello della lingua e si scontrò con l’evidenza di una tradizione letteraria troppo alta ed elitaria per il racconto moderno di vicende comuni. Egli fece perciò quello che già aveva fatto Dante: inventò l’italiano scritto.
La scrittura dei Promessi sposi attraversa decenni cruciali dell’Ottocento, i decenni in cui materialmente si fa l’Italia. È un romanzo storico, in cui il grande quadro sociale del Seicento confluisce nel racconto associandosi alle avventure dei due protagonisti, Renzo e Lucia, sulla cui strada s’incontrano aristocratici, avvocati, vagabondi, frati, soldati, artigiani, osti, mercanti, poliziotti, contadini. Nel romanzo si sentono tutte le loro voci, ora pacate, ora prepotenti. Ma il viaggio dei due giovani attraverso la carestia e la grande peste del 1630 disegna (per dirlo con le parole di Ezio Raimondi) un universo umano che è un groviglio di passioni e desideri. Così il romanzo parla dell’amore, dell’amicizia, della guerra, della violenza, del tradimento; attraverso le voci dei suoi personaggi parla della superstizione e della follia, della speranza e della giustizia. ma anche del prezzo del pane, delle rivolte popolari e della politica.
Mi accorgo di essere salito in cattedra, vezzo professionale, di cui chiedo scusa; scendo subito riconoscendo che, sì, I promessi sposi è un romanzo difficile, per l’alto grado di elaborazione artistica. Leggerlo all’età di 15 anni è quasi un castigo, ma a 17-18 anni (diciamo in quarta liceo) può essere un piacere (e, di fatto, per molti lo è); rileggerlo poi a 30 anni, con l’aggiunta della Storia della colonna infame, in coda alla quale compare la parola «Fine», è raggiungere la felicità.
Negli ultimi mesi della sua vita, Carlo Emilio Gadda era solito chiedere agli amici che andavano a trovarlo di leggergli qualche pagina del romanzo manzoniano, unica medicina che riusciva a regalargli momenti di felicità.
Se si volesse restare alle pagine iniziali, ad esempio, come non ricordare e citare un frammento descrittivo antifrastico, già ricco di figure umane, che si trova nelle prime battute del romanzo, e che bene anticipa quello che sarà il tema dell’intreccio.
«Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l’onore d’alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia.»
Questo testo è stato scritto e letto per la rubrica radiofonica “365 libri da leggere prima di morire”, RSI Rete Due, 2009
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