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Nel periodo elettorale i contributi di candidate e candidati sono benvenuti sulla nostra zattera secondo queste regole

Partito “vuoto”, s’era detto del Partito Democratico italiano. Mortificato dalla batosta elettorale di settembre. Privo di idee, energie, visioni. Ma ora “riempito”, rivitalizzato dall’inattesa vittoria alle primarie di Elly Schlein, ticinese di nascita e studi, da oggi nuova guida della formazione più importante dell’italico centro-sinistra. Scelta che porta una seconda donna ai vertici della politica nazionale, in un faccia a faccia fra prime donne che mette anche visivamente in campo tutte le contrastanti posture politiche e personali, di sostanza e di stile fra la Meloni e la neo-segretaria PD. La prima donna al vertice nella storia di una sinistra a lungo accusata – con buona ragione – di inguaribile maschilismo dei dirigenti; la prima, anche, a sovvertire la tradizione, visto che, sotto i gazebo del passato, potenziali elettori e simpatizzanti si limitavano a confermare l’opinione di chi si era già imposto nel preventivo voto degli iscritti (Stefano Bonaccini, questa volta); la prima a riportare a un’urna elettori che per stanchezza, sfiducia, incredulità se ne rimanevano a casa (un po’ più di un milione di partecipanti sembrano pochi rispetto ai milioni delle precedenti primarie, ma non lo sono affatto considerati gli altissimi tassi di astensionismo di recenti consultazioni italiane).

La “valanga Elly”, come titola qualche giornale per sottolineare più l’impatto politico del pur chiaro esito aritmetico della consultazione, è innanzitutto la voglia di riscatto e di rilancio della base residua dopo anni di errori ‘dem’: principalmente quello di un governismo esasperato, che ha voltato le spalle alle ansie di larghe fasce dell’elettorato meno abbiente (perciò fuggito in gran parte e da tempo nel populismo e nel sovranismo); poco sensibile alle istanze giovanili sull’ambiente e sul lavoro precario; recentemente inchiodato a un’‘agenda Draghi’ inverosimile e improponibile senza l’originale (cioè senza lo stesso ex presidente della BCE); espressione più di un apparato statale (burocrazia, scuole, tecnocrati) che del Cipputi in tuta operaia. Le “tre giustizie” invocate da Elly Schlein (sociale, ambientale, di genere) hanno mobilitato, pescando consensi soprattutto fra giovani e donne. Un sentimento, uno stato d’animo, e forse non proprio la scelta consapevole di un programma che ancora deve essere perfezionato, calibrato, da cristallizzare e rendere fruibile, possibile, concreto in una società liquida e multiforme, quella delle nuove professioni e di antichi mestieri in rinnovata difficoltà.

Un PD “spaccato” in due, è l’altro messaggio diffuso dalle odierne prime pagine. Quanto basta per smentire chi ha sostenuto per tutta la campagna che non vi fossero grandi differenze fra i propositi di Bonaccini e quelli della vincitrice imprevista. L’attuale presidente dell’Emilia Romagna, ex renziano, “ritocatto” nel look per risultare meno vetusto in fatto di stile, voglioso di ‘catch all’ (di un partito per tutti), certo pragmatico amministratore ma con slogan senz’anima, più vicino al ‘mandarinato’ delle trascorse stagioni. E la sua sfidante, ‘la pasionaria’ secchiona e irrequieta, anche derisa da finissimi commentatori per quel suo ‘ripartiamo con la partecipazione dal basso’, come se un’affermazione di semplice buon senso non potesse avere successo, come se l’invocazione non fosse comunque corredata da un corposo elenco (persino sovrabbondante) di propositi in cui non mancano concretezza e ragionevolezza.

Ma sarà proprio questa la missione più impegnativa per la Schlein, iscritta, lei “papessa straniera”, soltanto da una manciata di settimane al Pd: mantenere l’unità di un partito che per quasi metà non ne condivide appieno le idee di sinistra netta e la strategia movimentista; chiarire talune ambiguità, per esempio sulla guerra e sulle decisioni di Nato e Ue; neutralizzare l’immancabile tentazione interna di altre scissioni, stavolta e di nuovo nell’ala moderata-riformista; procedere a quel repulisti delle correnti che sono nello stesso codice genetico di un PD erede della lontana “fusione a freddo” fra post-democristiani e post-comunisti; far capire cosa intende davvero per “piccola rivoluzione” di cui parlava nella prima conferenza stampa dopo la vittoria. Compito quasi titanico, mentre vivono la sua ascesa con un certo compiacimento sia la destra di governo, convinta che rischi di spaccatura e ostacoli interni alla neo-eletta prosciugheranno molte sue energie; sia il polo centrista, che vede al centro un più ampio bacino elettorale di moderati dem contendibili; mentre rimangono i pentastellati, partner umorali, altalenanti, e comunque anch’essi in competizione.

In queste condizioni, l’“underdog” della sinistra (quello in partenza sfavorito dai pronostici) si impossessa delle chiavi del partito. Con cui chiudere vecchie porte ammuffite, e aprirne di nuove cariche di incognite. Il mandato offerto a Elly Schlein dalle primarie è solido. Ma solide, molto solide, si preannunciano le probabili resistenze di un apparato sconfitto e di uno schieramento che in alcune (non rare) fasi della sua storia, alla ricerca dell’unità ha preferito abbondanti dosi di autolesionismo.






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