Al servizio delle banche
Il Credit Suisse ha dettato alla Procura federale cosa dire alla nostra zattera
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Il Credit Suisse ha dettato alla Procura federale cosa dire alla nostra zattera
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Il Credit Suisse ha dettato alla Procura federale cosa dire alla nostra zattera
Lo scorso 25 gennaio ho chiesto al servizio comunicazione del Ministero pubblico della Confederazione (MPC) se vi fosse una procedura penale aperta in relazione alla vicenda Suisse Secrets, l’inchiesta giornalistica che nel 2022 ha messo in luce la clientela assai problematica di Credit Suisse. A differenza dei miei soliti scambi con i comunicanti della Procura federale, in questo caso la risposta ha tardato ed è giunta ben cinque giorni dopo. Il contenuto era comunque interessante e confermava l’apertura – a seguito di una denuncia – di un’inchiesta penale per spionaggio economico, violazione del segreto commerciale e del segreto bancario. La SvizzeraF indaga quindi sugli Suisse Secrets. Non contro Credit Suisse, ben inteso, ma contro la misteriosa gola profonda che ha fornito migliaia di documenti top secret alla Süddeutsche Zeitung. Una notizia, insomma, che ho pubblicato su Gotham City e su Naufraghi/e.
Ancora non lo sapevo, ma l’aspetto più interessante era un altro: è il dietro le quinte dell’informazione comunicatami dalla Procura federale. La vicenda è raccontata oggi dal Tages Anzeiger e dal 24Heures che spiegano come – nel rispondere ad un giornalista ticinese – l’MPC si sia rivolto direttamente a… Credit Suisse. Sì, avete capito bene: la massima autorità di perseguimento penale della Confederazione, nel rispondere ad un giornalista su una domanda specifica, chiede come procedere nella risposta alla principale parte in causa nella vicenda. Non solo: i giornalisti del gruppo Tamedia hanno verificato come la Procura federale abbia ceduto alla richiesta di Credit Suisse di non specificare che la denuncia all’origine dell’inchiesta penale fosse stata inoltrata dallo stesso istituto bancario. L’MPC ha persino inviato via e-mail alla banca l’esatta formulazione della risposta che voleva darmi e preteso un riscontro. Eccolo spiegato, l’insolito ritardo nella risposta!
Non so se si tratta di un caso specifico oppure se siamo di fronte ad una prassi. Ogni volta che la domanda è sensibile e tocca un attore importante della piazza finanziaria elvetica, la Procura federale chiede il permesso su cosa dire o non dire? Non ho gli elementi per rispondere. Certo è che quanto successo è di una gravita inaudita, che fa perdere ogni credibilità nell’indipendenza (perlomeno) comunicativa della Procura federale.
Questo caso mette in luce la connessione (o collusione?) tra autorità e alto mondo della finanza. Di recente il Blick ha dato notizia di come dei rappresentanti della Segretaria di Stato per le questioni finanziarie internazionali (SFI) consigliano le banche svizzere su come trattare gli articoli che criticano la loro attività. Non solo: i vertici del SFI intervengono direttamente presso i media internazionali, come ad esempio il Financial Times. Nulla d’illegale, certo. Ma la prassi pone interrogativi: dopo tutto, tra i compiti dello SFI vi è anche quello di sviluppare la regolamentazione dei mercati finanziari.
D’altronde come spiegano gli storici, è stata l’influenza del settore bancario a permettere l’introduzione, nel 1934, dell’articolo 47 della Legge federale sulle banche. Non un articolo qualunque, ma quello che cementa nella legge quel segreto bancario che ha fatto la fortuna della piazza finanziaria elvetica. Una legge che è stata rinforzata nel 2015, nel contesto di un’aumentata pressione internazionale sulla Svizzera e di episodi come gli SwissLeaks, il massiccio furto dei dati dalla filiale ginevrina di HSBC. Allora, il Parlamento ha deciso di estendere l’articolo 47 a “chiunque, intenzionalmente, divulga un segreto che gli è stato rivelato” in violazione del segreto bancario. Tra questi, ecco che siamo tutti noi, giornalisti compresi, che possiamo essere imprigionati fino a tre anni se divulghiamo dati sui clienti delle banche.
Fino al 2022, questa modifica della legge è passata praticamente inosservata. Ma quando, lo scorso anno, i dati sui clienti criminali di Credit Suisse sono stati pubblicati dai giornali di mezzo mondo tranne che in Svizzera, il dibattito si è riacceso. Irene Khan, relatrice delle Nazioni Unite sulla libertà di espressione, ha scritto all’allora presidente della Confederazione Ignazio Cassis per esprimere il suo totale disaccordo con questa “criminalizzazione del giornalismo”.
La questione non tocca solo i giornalisti. Di recente la Società svizzera di storia ha scritto una lettera al Dipartimento federale delle finanze per ricordare come, oltre che i giornalisti, anche gli storici sono limitati nel loro lavoro dall’articolo 47 della legge sulle banche. Nella lettera firmata dal suo presidente, lo storico grigionese Sacha Zala, l’associazione si rammarica che ai ricercatori venga spesso negato l’accesso agli archivi. Conseguenza: “la ricerca storica sulla piazza finanziaria svizzera è in gran parte bloccata, il che è inaccettabile vista la sua importanza economica, politica e sociale per la storia del nostro Paese”.
La questione è di stretta attualità. In una mozione, la Commissione economia del Consiglio nazionale ha chiesto al Consiglio federale di esaminare se la legislazione attuale debba essere modificata “così da garantire la libertà dell’informazione riguardo ai temi concernenti la piazza finanziaria”. Il Governo si è detto disposto ad entrare nel merito sottolineando “l’importanza dei principi costituzionali che garantiscono la libertà dei media”. La mozione verrà discussa proprio oggi al Consiglio nazionale. Vedremo se il fronte borghese che in commissione era stato messo in minoranza riuscirà a capovolgere la situazione. Speriamo di no.
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