Negli antri più riposti

Negli antri più riposti

Introduzione al libro “Una domenica tranquilla”, di Lorenza Noseda


Pietro Montorfani
Pietro Montorfani
Negli antri più riposti

Come per ogni gesto che appartenga alla categoria delle gratuità e generosità umane, il nascere e il rafforzarsi di una vocazione letteraria non ha mai smesso di suscitare in me la più grande ammirazione. Tanto più se una simile chiamata si esplicita con i ritmi lenti di una vita intera, si stacca piano piano dall’intimo fino a diventare un fatto pubblico, seguendo vie insondabili e misteriose. Ad un certo punto, diverso per tutti, inizia infatti a emergere qualcosa che prima non c’era: un’atmosfera, un mondo, un insieme di suoni e persone. Semplicemente esiste. È la magia della letteratura. 

Lorenza Noseda si era già segnalata nel 2019 vincendo con Gente di frontiera la decima edizione del Premio Chiara per una silloge di racconti inediti. Ignoro se quei tredici pezzi brevi, così simili ai nove che qui si raccolgono, siano stati scritti in tempi remoti oppure se siano invece il frutto di un’urgenza recente. È certo però che per equilibrio e sincerità  dell’ispirazione Una domenica tranquilla può ben dirsi un prosieguo, se non un completamento, di quella stessa esperienza di scrittura, quasi l’onda lunga di un medesimo slancio iniziale. 

Per coglierne la vera natura sarebbe sufficiente tornare alla copertina che apre il volume: un interno domestico illuminato da una luce radente, l’attimo prima (o l’attimo dopo) di una storia che non potrà più essere quella di prima, avvolta in un silenzio surreale. Nella forma di tante piccole vicende personali, dram- matiche per l’animo dei protagonisti assai più che per il corpo, l’autrice infila una dopo l’altra alcune scene che non si esiterebbe a definire borghesi, secondo un’oscillazione che dai mestieri più umili (il custode, il pasticciere) giunge fino alla fascia più alta di quella classe e condizione sociale. Alberghi di lusso, boutique, onorificenze, prestigio, abitudini e gusti di una categoria umana in gran parte privilegiata, ma non esente per questo da quegli accadimenti che incrina- no anche le certezze più saldamente costruite. 

Il senso di colpa, declinato di volta in volta in toni e colori sempre diversi (inquietudine, rimpianto, apatia, affanno), è il leitmotiv che attraversa come una lama questi nove racconti: dal giardiniere che si pente troppo tardi di non essere andato al funerale della cognata, all’avvocato che ha ignorato l’esistenza di un fratellastro africano, fino al marito che nasconde alla moglie la verità su una malattia ereditaria. Sembrano i canovacci di altrettante storie ancora da raccontare, e invece esistono già in questo stile asciutto, essenzialmente dialogico, parcamente descrittivo. Lorenza Noseda procede spedita verso il cuore delle questioni, non senza tratteggiare in modo efficace il perimetro antropologico e sociale entro il quale si muovono i suoi personaggi: quasi che le loro abitudini, i loro gusti, il loro entourage fossero altrettante caratteristiche della loro fisionomia fisica. Gli abiti, in questi vasti appartamenti silenziosi che paiono lì lì per schiudersi in un grido feroce e liberatorio, fanno decisamente i “monaci”, li stringono in una metaforica armatura di costrizione e rancore. 

Inutile dire che, nonostante l’atmosfera domenicale, non c’è nulla di tranquillo nelle esperienze vissute dai personaggi e condivise in modo così diretto e franco con i lettori. Consapevolezza, umiltà, serenità, pace – in una parola: il perdono, per sé e per gli altri – sono condizioni che si conquistano soltanto a costo di grandi fatiche, di lunghe e tormentate introspezioni. Il potere e il compito della scrittura è quello di andare a stanarle proprio là dove si trovano, negli antri più riposti dei cuori delle donne e degli uomini che le hanno sperimentate per noi. 

Per gentile concessione delle edizoni Dadò, che ringraziamo

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