Cantare e ballare in tempi di pandemia
Piccola storia di una canzone che sta diventando… virale
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Piccola storia di una canzone che sta diventando… virale
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Piccola storia di una canzone che sta diventando… virale
Con il termine “polisemìa” in linguistica si intende la possibilità, per nulla infrequente, che una stessa parola o uno stesso sintagma assumano significati diversi, a seconda del contesto in cui sono collocate.
Lo stiamo imparando sempre più, in questi anni di riduzione a slogan di pensieri e riflessioni, in quest’epoca di “estrapolazione selvaggia” di affermazioni di ogni genere riportate (e travisate) con il principio della sintesi dal popolo dei social.
Fra le tante caratteristiche dei social c’è chiaramente quella di poter e voler ospitare solo messaggi brevi, sintetici, possibilmente “ad effetto”, per poi sperare che siano letti, condivisi, likeati, ottenendo, non di rado, di trovarseli invece contestati, con toni per nulla dialettici o dialogici. Insomma, come sappiamo tutti, di estrapolazione, sintesi e sentenziosità i social vivono, alimentando pseudo-dibattiti che passano in fretta alla contumelia e all’insulto.
E le parole, che andrebbero non solo misurate, ma soprattutto ben spese, restano come sospese, incapaci di diffondersi come dovrebbero in tutte le loro polisemiche potenzialità, nella loro capacità di interrogare ed interrogarci. Si trasformano in generiche affermazioni (magari di seconda mano) destinate a sfidare il pubblico dileggio con la conseguenza, per chi le proferisce, di doversene pentire, addirittura scusare o di invocare il fraintendimento. E’ tutto un arcipelago di incompresi e vilipesi dentro un contesto di comunicazione di massa che stenta, forse, oggi come non mai, a favorire il dialogo.
C’è una vicenda, legata all’uso delle parole ed al loro utilizzo e collocamento, che mi pare possa costituire un esempio interessante di polisemia su cui varrebbe magari la pena di riflettere.
In tempi di pandemia (questo è il già di per sé polisemico contesto) ad un musicista francese di nome Haddour Kadadi (in arte HK) viene impedito, nell’autunno scorso di esibirsi in un evento per il quale era stato ingaggiato poiché le condizioni sanitarie non lo rendevano più possibile. Intendiamoci, l’evento ha avuto luogo, ma senza l’intervento musicale di HK, poiché, secondo le norme, la sua era una presenza inessenziale.
Tempo due giorni, HK scrive una canzone per esprimere la delusione e la frustrazione dell’artista messo alla porta per questioni di norme sanitarie che lo decretano “inessenziale” e nasce così la canzone “Danser encore”, un “inno” al desiderio e alla volontà di ritornare, nel limite del possibile, alla normalità.
Il ritornello fa così:
Nous on veut continuer à danser encore
Voir nos pensées enlacer nos corps
Passer nos vies sur une grille d’accords
Il brano è pubblicato su You tube e diventa in un attimo un “tormentone” cliccatissimo, impugnato come colonna sonora della resistenza dei negazionisti in manifestazioni pubbliche contro le restrizioni sanitarie in cui “Danser encore” viene cantata da decine, centinaia di persone.
HK allora, cerca di chiarire le sue parole: è vero, parla nella canzone di “confinamento delle coscienze” e delle misure sanitarie dice che si tratta di decisioni “angoscianti fino all’indecenza” (vedi testo originale), ma specifica che il suo è un messaggio rivolto a chi, specie in Francia, ne ha fatto uno strumento per escludere la cultura dal contesto delle necessità della vita sociale. Insomma, per HK, non ci si deve curare solo del corpo, ma anche della mente.
E la canzone, con le stesse parole, si trasforma da inno alla resistenza nei confronti delle norme sanitarie, in inno alla resilienza per la cultura e lo spettacolo. Artisti e musicisti, in ogni angolo della Francia iniziano ad organizzare Flash mob al suono di “Danser encore”.
Su You tube la canzone viaggia ormai a milioni di visualizzazioni, viene tradotta in molte lingue e cantata dalla gente, per strada, a Berlino, Barcellona, Zurigo, Bologna.
Diventa virale, insomma, perché si mostra (o si trasforma in) una canzone “liberatoria”, che interpreta l’esigenza di dar sfogo all’”irriverenza, ma sempre con eleganza” (sono ancora parole del testo). E’ una ribellione allegra, dentro un motivetto che in un attimo non ti esce più dalla testa, che fa cantare, ballare e battere le mani, che piace a tutti.
Ma non proprio a tutti: verso fine marzo, sempre in Francia, viene registrata una nuova versione della canzone, con un leggero, ma sostanziale, cambiamento del titolo: “Soigner encore”. Medici e paramedici rivendicano, attraverso le note ed adattando il testo di HK, la loro “missione”, la volontà e la necessità di continuare a curare, di occuparsi dei milioni di persone colpite dalla pandemia, nonostante la situazione drammatica in cui versano gli ospedali e la sanità pubblica francese.
Ecco che “Soigner encore” mette insieme medici ed artisti, la cura del corpo e dello spirito, con la benedizione di HK.
Il merito, polisemicamente parlando, sta probabilmente proprio nella musica, l’arte senza parole, il linguaggio più fecondamente polisemico che esista. Non importa, in fondo, se la canzone è bella, di grande qualità artistica: interpreta uno stato d’animo, a sua volta ineffabile, ed ha saputo diffondere, per inclusione, dentro le proprie note, punti di vista che paiono (o parevano) contrapposti.
A volte, davvero, più che parlare, si dovrebbe tornare a danzare.
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