Dalla valigia di cartone al made in Italy
Al Landesmuseum di Zurigo 10 testimoni raccontano in presa diretta la loro esperienza migratoria – 36 minuti di italianità senza grandi sorprese
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Al Landesmuseum di Zurigo 10 testimoni raccontano in presa diretta la loro esperienza migratoria – 36 minuti di italianità senza grandi sorprese
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Al Landesmuseum di Zurigo 10 testimoni raccontano in presa diretta la loro esperienza migratoria – 36 minuti di italianità senza grandi sorprese
Italianità è anche il titolo della mostra in corso al Museo nazionale svizzero di Zurigo e aperta fino al 14 aprile 2024 (con una interruzione tra metà ottobre e metà gennaio per lasciar spazio a un’esposizione di presepi natalizi).
Quanto proposto rientra in un format, Esperienze della Svizzera, che si basa esclusivamente su testimonianze raccolte, registrate e selezionate dai curatori (accanto alla direttrice ticinese del Museo Denise Tonella, Luca Tori e José Cáceres Mardones). Parlare di mostra crea aspettative eccessive: si tratta infatti della semplice proiezione, sulle grandissime pareti di una sala dell’ottocentesco Museo (che compie 125 anni), di 10 video di 3-4 minuti ciascuno: a disposizione del pubblico delle cuffie che offrono sia la versione originale italiana che la traduzione nelle altre lingue nazionali e in inglese.
Ai visitatori, più o meno comodamente seduti su alcuni divani, si presentano dunque, senza introduzione-mediazione alcuna, i 10 testimoni. I loro racconti-ricordi contribuiscono a descrivere quanto la minoranza italofona interna e l’immigrazione abbiano contribuito a consolidare, dopo la Seconda guerra mondiale, la moderna Svizzera in ottica di diversità-complementarità-integrazione-coesione.
Nel comunicato stampa e sul suo sito, il Museo stesso prova a spiegare il senso generale dell’iniziativa, quasi a giustificare un pizzico di delusione tra il pubblico per la mancanza di oggetti in mostra, tavole esplicative, piccola pubblicazione accompagnatoria: una certa “freddezza”, insomma, che il sottoscritto ha percepito, come altre persone presenti insieme a lui, l’altro giorno: “Molti sviluppi del recente passato hanno cambiato il volto della Svizzera. L’immigrazione o la diffusione di Internet sono esempi di profondi cambiamenti sociali che ancora oggi influenzano il nostro modo di stare assieme. Non è sempre possibile rappresentare tutti questi sviluppi tramite degli oggetti. Il nuovo formato espositivo «Esperienze della Svizzera» si concentra pertanto sui testimoni diretti. I loro destini e le loro esperienze offrono al pubblico del museo uno sguardo ricco di sfaccettature sulla storia contemporanea della Svizzera. Ogni anno viene proposto un nuovo tema”.
I 10 testimoni scelti – 5 donne e 5 uomini – sono, in larghissima parte, immigrati e figli di immigrati. Il solo Sacha Zala, poschiavino, storico, già presidente della Pro Grigioni italiano, impersona una realtà diversa. Cittadino svizzero, vive e rappresenta una duplice condizione di minoranza: quella svizzero-italiana all’interno del Paese e quella grigionitaliana all’interno della Svizzera italiana. Un tema e una situazione che a sud del San Gottardo e del Bernina sono note – nihil sub sole novum, quindi – ma che per un pubblico confederato e straniero (per il quale la rassegna è prioritariamente pensata) può essere spunto di riflessione. L’impressione generale non del tutto soddisfacente all’uscita è legata proprio al fatto che a un ticinese molto era già noto.
Quanto agli altri intervistati e alle loro impressioni, coprono – per provenienza geografica, formazione, indole – uno spettro, sociologico e psicologico, amplissimo: utilizzerò, pentendomene immediatamente, l’orribile “a 360 gradi”.
Il loro arrivo in Svizzera risale alla terza grande ondata immigratoria degli anni del boom economico tra fine ‘50 e inizio ‘70 del secolo scorso: qualcuno (Gemma, trasferitasi da Napoli a Jona) lasciò l’Italia con grandi speranze, trovando però una realtà diversa.
L’iniziativa Schwarzenbach, che avrebbe voluto limitare ad un massimo del 10% la percentuale di stranieri in ogni Cantone (Ginevra escluso), respinta il 7 giugno 1970 dal popolo svizzero con il 54% di NO anche se accolta in 8 Cantoni, tra cui Berna, Soletta, Friburgo e Lucerna, aleggia vivida nei ricordi di più di un intervistato. Così come, in altre testimonianze toccanti, le visite mediche e le umilianti radiografie a cui venivano sottoposti, al confine, quanti cercavano soltanto una vita migliore per sé e le proprie famiglie, con ricongiungimenti difficili o impossibili.
Duro lavoro, insomma, fragili statuti di stagionale, tutela sindacale pressoché inesistente, lunghe giornate sui cantieri o, per i più fortunati o formati, in fabbrica. Vite ai margini per la non conoscenza del tedesco o del francese, alloggiati in baracche o appartamenti dove si formavano ghetti comunitari uniti da gradi più o meno stretti di parentela o soltanto dalla regione di provenienza. Tutti questi aspetti emergono nei ricordi di alcuni dei protagonisti. Altri, invece, danno un quadro diverso. Ivan, arrivato diciottenne ad Airolo, figlio di immigrati calabresi, si definisce caratterialmente svizzero, aggiungendo un’emblematica chiosa: “non volevo disturbare facendo rumore”. Ma la sua vita è qui: “È importante dove si nasce, dove si sta, dove si è sepolti”.
Anche Pierre, partito dal Piemonte per Sion, descrive un’integrazione più facile, quasi immediata: non più gli Italiani “baraccati”, entrati con la valigia di cartone, quelli di Max Frisch che “cercavamo braccia, sono arrivati uomini”, bensì “les Italiens, le top, la crème de la crème”, interpreti di un’italianità mainstream, fatta di moda, arti, automobili, vacanze, cibo, stile di vita e molti luoghi comuni: ecco, questo altro significato del concetto di Italianità, cronologicamente più recente rispetto all’immigrazione della seconda metà del secolo scorso, nella mostra del Landesmuseum, rimane un po’ sotto traccia.
Bibliografia essenziale
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