Il libro che conferma tutti i vostri peggiori sospetti su Facebook
Il social network di Zuckerberg sarà sempre a metà del guado sui diritti e il rispetto della privacy
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Il social network di Zuckerberg sarà sempre a metà del guado sui diritti e il rispetto della privacy
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Il social network di Zuckerberg sarà sempre a metà del guado sui diritti e il rispetto della privacy
Un sistema spregiudicato, disinteressato alle regole e ai diritti degli utenti, ambiguo nelle relazioni internazionali e lontano da un’idea etica. “Facebook: l’inchiesta finale” (Einaudi) delle giornaliste Sheera Frenkel e Cecilia Kang scoperchia una realtà in parte nota e in parte tenuta nascosta, evidenziando come la piattaforma sia diventata un pericolo per la pace e la democrazia.
Poche aziende al mondo hanno avuto lo stesso impatto di Facebook. Non è solo entrato nella vita di miliardi di persone in tutto il mondo, cambiato modi, inventando abitudini e condizionando il linguaggio e la parola. Ma ha anche influito sull’esito delle elezioni in tantissimi Paesi, ha contribuito a disseminare, in mezzo a meme e idiozie, anche false notizie pericolose e contenuti di odio. È diventato uno strumento nelle mani di autorità violente, è stato impiegato a fini manipolatori, ha effettuato esperimenti psicologici sugli utenti inconsapevoli. E se è vero che le primavere arabe si sono servite dei social come mezzo di comunicazione immediato, è anche vero che in Myanmar è stato fondamentale per la repressione dei Rohingya.
Tutto questo fa parte di “Facebook: l’inchiesta finale”, delle giornaliste Sheera Frenkel e Cecilia Kang. È un resoconto serrato degli ultimi cinque anni della società – ma che non disdegna excursus nel passato e, addirittura, nel futuro. Mette in luce, sulla base di una ricchissima documentazione, quello che ha trasformato un social network in una minaccia per la democrazia, dettagliando i minimi passaggi della sua crescita, dei contrasti interni, degli errori. Parlare di Facebook significa descrivere «l’esperimento sociale più significativo dei nostri tempi», cioè scrivere il più grande romanzo del nostro tempo.
Mark Zuckerberg non ne esce bene. Il fondatore mostra, fin dagli inizi, di essere più interessato alla crescita del suo social network che ai problemi della privacy e della protezione dei dati. Il libro ricorda un aspetto spesso trascurato nei resoconti della sua storia (sia accusatori che agiografici): le proteste per le invasioni della sfera personale di Facebook esplodono fin dall’inizio, cioè fin da Harvard. Ma lui le ignora sempre in nome della rapida crescita del network e di un disegno superiore, cioè l’idea di «connettere il mondo». In realtà, come aveva notato il suo primo collaboratore-concorrente Aaron Greenspan, Zuckerberg «acquisiva dati solo per acquisirli». Perché «credo che si rendesse conto che più dati avevi, più eri in grado di costruire un modello del mondo accurato e di capirlo. I dati sono estremamente potenti e Mark lo sapeva. Alla fine ciò che gli interessava era il potere».
Alla sua ambizione sfrenata, lo spirito competitivo spietato (viene sottolineato in più passaggi, ma soprattutto nell’impegno a eliminare la concorrenza acquisendola) il ritratto delle 367 pagine del libro mostra un «un uomo d’affari con poco entusiasmo per gli affari», un Ceo impacciato di fronte ai giornalisti e «incline a sudare e a balbettare durante le interviste più difficili», ma che spesso ascoltava «con la sua espressione notoriamente inquietante. Nelle conversazioni uno a uno era in grado di mantenere lo sguardo fisso per diversi minuti. Ne risultavano silenzi lunghi e penosi. I collaboratori di vecchia data giustificavano questa stranezza con clemenza, sostenendo che la mente di Zuckerberg assorbisse ed elaborasse le informazioni come un computer».
Soprattutto, si rivela un leader con un mindset ristretto, la cui esperienza di vita è «limitata e protetta», tra Exeter, Harvard e la Silicon Valley e questo si riverbera nella cultura aziendale. Molti degli errori strategici di Facebook, tra cui quello fatale di cercare l’espansione planetaria senza immaginare l’impatto di uno strumento informatico in Paesi non democratici (come appunto il Myanmar), derivano anche da qui. Nel libro, ad esempio, si ricorda che molti delle incitazioni all’odio che apparivano sulle pagine social birmane non venissero rimosse perché non c’erano moderatori che capissero, a parte il birmano, le altre cento lingue parlate in Myanmar.
Accanto a lui si inserisce allora, nel 2007, Sheryl Sandberg, direttrice operativa della società. Il suo background è molto diverso, per formazione (economia, business e management) ed età (si iscrive all’università, sempre Harvard, nel 1987, quando Zuckerberg aveva tre anni), ma proprio per questo riesce ad affiancare Zuckerberg, prendendo in carico la parte della monetizzazione. La sua esperienza a Google, i contatti con la politica di Washington, l’inclinazione verso i Democratici la rendono la personalità perfetta per quel ruolo. Quando Facebook finirà al centro delle polemiche a causa delle intromissioni della Russia durante la campagna elettorale del 2016 e per lo scandalo legato a Cambridge Analytica, a lei toccherà anche l’organizzazione della difesa comunicativa e la gestione delle pubbliche relazioni. Non si rivelerà sempre all’altezza del ruolo, ricordano le due giornaliste, come nell’audizione di fronte al Senato nel 2018, quando le sue parole preparate, studiate e calibratissime non funzionano: «Quelle di Sandberg erano esattamente le risposte vuote che il Congresso aveva imparato ad aspettarsi da Facebook». Una performance.
In ogni caso la collaborazione con Zuckerberg funziona, nonostante gli scontri e le perplessità iniziali. “L’inchiesta finale” ha anche questo merito: raccogliendo dichiarazioni private, ricostruzioni da fuoriusciti e materiale pubblico, fa entrare il lettore nella realtà aziendale di Menlo Park. Non è un bel vedere. Le dimensioni colossali e la scarsa trasparenza nelle decisioni provocano tensioni e disarmonia tra i dipendenti, sia programmatori che dirigenti. Soprattutto, la società si dimostra impreparata ad affrontare le difficoltà che la sua grandezza e la sua ambizione le imporrebbero di prevedere.
Si tratta di cose grandi, come le manipolazioni dei finti profili creati dalla Russia per interferire nelle elezioni, ma anche di questioni all’apparenza minori. Fino al 2015 tanti dipendenti, ad esempio, hanno approfittato della posizione di privilegio per spiare i profili di persone cui erano interessati, con accesso a tutte le informazioni possibili (dalle immagini alla posizione in tempo reale, fino alle chat private). La policy era ed è di tolleranza zero per gli abusi, ma entrava in gioco solo quando questi venivano scoperti.
In altri casi le questioni erano più delicate e il libro le documenta con equilibrio. I video della campagna elettorale del 2016 di Donald Trump andavano rimossi, come chiedevano molti dipendenti, o è stato giusto mantenere una posizione neutrale? Le giornaliste sottolineano che, in ogni caso, non si è trattato di una decisione presa sulla base di posizioni di principio bensì di semplice opportunismo: i Conservatori erano già sul piede di guerra contro Facebook, considerato troppo liberal. Andare a colpire Trump avrebbe significato inimicarseli in via definitiva.
(Altra cosa è stato il de-platforming dopo l’assalto al Campidoglio, occasione in cui Facebook si era già munito di una sorta di commissione di saggi, definito da Zuckerberg una «Corte suprema», perché votasse sui casi più spinosi con decisioni che nemmeno lui avrebbe potuto ribaltare. Il Facebook Oversight Board costituiva così la scappatoia migliore per delegare ad altri decisioni impopolari e rischiose).
Non solo. Lo scandalo di Cambridge Analytica è stato un terremoto prima di tutto per i vertici, perché ha scoperchiato al pubblico in modo incontestabile la politica di noncuranza verso i dati personali, la totale mancanza di rispetto nei confronti degli utenti, la spregiudicatezza costitutiva, il disprezzo per le regole e, infine la tattica usuale di Zuckerberg: fare prima e difendersi poi, forte di una enorme squadra di lobbisti al Congresso. «Nel 2020 si era classificata al secondo posto tra le società per azioni singole di ogni settore quanto a spese per le attività di lobbismo, sborsando quasi venti milioni di dollari e superando Amazon, Alphabet, Big Oil, Big Pharma e il settore retail».
Ma a definire le cose resta comunque il peccato originale, che supera il cinismo del fondatore, l’ambizione senza scrupoli di un’azienda che si considera sovranazionale e l’ansia di potere di un gruppo di ex nerd. È il problema dell’algoritmo o meglio, della sua concezione: come spiegano le due autrici, Facebook sarà sempre a metà del guado sui diritti e il rispetto della privacy, mentre la sua missione di collegare le persone del mondo resterà sempre incompleta se – sottolineano –pretenderà di trarne anche profitto. È questo contrasto, tra spinta filantropica e sete di profitti che, in ultima analisi, si trova all’origine di tutte le falle che si sono verificate finora. E che, forse inestricabile, finirà per minarne le fondamenta.
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