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• 30 Novembre 2022 – Redazione

Di Guido Caldiron, il manifesto

È «l’ultima dichiarazione» che spetta agli imputati nell’aula di un tribunale, una parola libera in un Paese che non conosce più il pluralismo, il diritto al dissenso e all’opposizione. E che da dopo l’invasione dell’Ucraina, il 24 febbraio scorso, considera ogni voce critica alla stregua di un nemico. Da reprimere, neutralizzare, cancellare. I testi riuniti in Proteggi le mie parole in libreria da domani per e/o (a cura di Sergej Bondarenko e Giulia De Florio, prefazione di Marcello Flores, pp. 178, euro 16,50) raccontano la Russia di Putin attraverso venticinque testimonianze che, lungo gli ultimi cinque anni, tracciano l’orizzonte di una resistenza che continua pur tra mille difficoltà e rischi.

Sono le dichiarazioni pronunciate da imputate e imputati in processi politici svoltisi nel frattempo nel Paese: voci note come quelle di Aleksej Naval’nyj o dello storico Jurij Dmitriev, di una ex deputata o di un militante anarchico, ma anche di tanti uomini e donne comuni che devono rispondere di una protesta di strada, di un cartello contro la guerra agitato sulla pubblica via. Come gli scritti raccolti nei samizdat dell’epoca del dissenso al regime sovietico, si tratta di testimonianze di prima mano di ciò che le autorità e il potere putiniano negano o cercano di rendere invisibile: la violenza, la repressione, la censura, la stessa guerra in Ucraina.

Uno scenario che si intreccia non a caso al tentativo di controllare il passato della storia russa, rimuovere i crimini staliniani e le ombre che continuano a proiettare sul presente. Come segnala Sergej Bondarenko, classe 1985, uno degli storici dell’associazione Memorial, sorta negli anni Ottanta su iniziativa dell’ex dissidente Andrej Sacharov per documentare l’orrore dei gulag e delle persecuzioni politiche nell’Urss, che il regime di Putin ha messo al bando proprio alla vigilia della guerra in Ucraina. A Memorial è andato quest’anno il Nobel per la pace.

Nell’introduzione lei fa riferimento al passato di repressione dell’Urss e al celebre caso dei dissidenti Daniel – Sinjavskij. Nella Russia di Putin si è tornati a quel clima, al tentativo di annichilire ogni voce libera?

Assolutamente. Anche se in realtà si potrebbe sostenere che il clima non sia mai cambiato del tutto: ne abbiamo solo conosciuto delle fasi diverse ai tempi di Eltsin o nei primi anni di Putin. Si può iniziare dall’idea stessa di «sistema giudiziario indipendente», che in realtà non era assolutamente tale in epoca sovietica e ne è una sorta di parodia in questo momento. Si può comunque sostenere che la situazione è peggiorata molto negli ultimi 10-12 anni del mandato di Putin. Anni nei quali, inoltre, non è più presente alcuna opposizione legale in parlamento. Già dai primi anni 2000 l’opposizione era sotto pressione, ma almeno a quel tempo se ne vedeva un po’ in tv grazie alle manifestazioni politiche che venivano organizzate. In questo momento non c’è quasi nulla: la resistenza contro la guerra è molto coraggiosa, ma si fa notare a malapena fuori da Internet. Le ultime parole che gli imputati possono pronunciare in tribunale diventano così l’unica forma di discorso politico pubblico nella Russia di oggi.

Perché le autorità hanno deciso di mettere al bando Memorial, nata per documentare la repressione di epoca sovietica: nascondere i crimini del passato serve per controllare il presente e rendere possibile che tutto ciò accada ancora?

Credo si tratti di parte del processo che ho già cominciato a descrivere. Ancora 10 o 12 anni fa si poteva pensare che l’avvento di Putin potesse offrire qualche chance al Paese. Ora ci rendiamo conto del contrario: abbiamo conosciuto alcuni anni di speranza durante l’ultimo periodo della Perestrojka e il mandato di Eltsin e prima della guerra cecena. Dopodiché si è arrivati lentamente alla situazione che si vive attualmente. Per Memorial è accaduto lo stesso: all’inizio l’associazione si occupava del passato sovietico, solo che questo si è trasformato molto rapidamente nel nostro presente. E per certi versi, il presente è persino peggiore dell’ultima fase sovietica: ora non abbiamo solo prigionieri politici, abbiamo omicidi politici, abbiamo la guerra. Dall’inizio degli anni ’90 Memorial lavora in due diversi campi: sul piano storico e su quello della difesa dei diritti umani oggi. Solo che in questo momento tali piani sembrano coincidere: stiamo rivivendo i nostri peggiori incubi. Quindi che si sia voluto liquidare Memorial non è così sorprendente se la si guarda dal punto di vista del regime che vuole fermare tutti coloro che possono contestare pubblicamente la versione propagandistica ufficiale della guerra.

Cosa ha rappresentato per Memorial e l’attività che svolge il fatto che l’associazione sia stata insignita del Premio Nobel per la pace? E di questo riconoscimento che eco si è avuta in Russia?

Non posso parlare a nome di tutti, da dopo i mesi passati in tribunale e la messa al bando dell’associazione, per me ha rappresentato un segno di vita. E la cosa più importante è che non è stata premiata solo Memorial ma 3 organizzazioni attive in Ucraina, Bielorussia e Russia. Ovviamente continueremo il nostro lavoro dentro e fuori la Russia e il Nobel è solo uno dei segnali di incoraggiamento che è arrivato insieme ad altri. Sappiamo che la Russia non è solo Putin e il suo governo. Con il Nobel, Memorial è in buona compagnia, accanto a Pasternak, Solzhenitsyn, Sakharov e Muratov: anche tutti loro sono stati messi sotto pressione dal regime prima e dopo aver ricevuto il premio. Ora dobbiamo solo essere all’altezza delle aspettative.

Le dichiarazioni raccolte nel libro non contengono solo informazioni legate ai singoli casi, ma sono un’occasione per denunciare la situazione del Paese, la violenza subita dagli oppositori, la guerra. Si può parlare di questi testi come di voci della resistenza russa contro il regime?

Senza dubbio. Come spiegavo, lo consideriamo uno degli ultimi modi per dire qualcosa pubblicamente, in un contesto «ufficiale», che resti a verbale. L’idea che si possa parlare liberamente in un tribunale quando per altri versi tutto ciò è completamente vietato o soggetto a censura rappresenta una sorta di problema tecnico che si verifica dentro un sistema. Del resto, è una vecchia tattica di guerriglia quella di rivoltare il sistema contro se stesso e provare a dire qualcosa di vero usando a tal fine le contraddizioni dei meccanismi repressivi.

Gli ultimi testi sono stati raccolti nei tribunali dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina: cosa è cambiato da quel momento per la società russa e per coloro che si battono per la libertà e il rispetto dei diritti umani?

L’intero sistema in cui ci muovevamo è crollato. Siamo privati delle cose più semplici – non puoi dire che sei contro la guerra o pacifista (o anche che vuoi che la guerra finisca con la vittoria ucraina, qualunque cosa significhi). Molte persone hanno lasciato il Paese, per il momento con la speranza di tornare. Molti dei miei colleghi sono rimasti in Russia e continuano il loro lavoro e anch’io sto cercando di fare lo stesso: dall’inizio della guerra ho trascorso sei mesi in Germania e due in Russia. Vivo fuori dal Paese da agosto, ma quel che posso dire della Russia è che proprio il tentativo di costruire una mobilitazione dopo il 24 febbraio ha condotto molti a rendersi conto della realtà in cui viviamo. L’elenco delle opzioni è infatti breve: cosa puoi fare se sei contro la guerra e sei ancora in Russia?

Lei è costretto a vivere a Berlino per poter svolgere il suo lavoro per Memorial: cosa significa operare in esilio e dopo la messa al bando dell’associazione? Infine come vede il futuro della Russia?

Ho lasciato la mia casa con uno zaino, due libri e un paio di stivali e non l’ho mai considerato come un viaggio di sola andata. Allo stesso tempo devo dire che questa è una posizione privilegiata: molte persone in Russia non hanno modo di andarsene. Qui ho un posto dove stare con la mia famiglia. Ovviamente non è facile, ma considerando cosa sta facendo l’esercito del nostro Paese in Ucraina in questo momento, sono al sicuro. In Russia, molti dei miei colleghi lavorano ancora per aiutare le persone a non finire nell’esercito o a lasciare il Paese o ad essere rappresentate da un legale in tribunale. La mia unica speranza è che rimaniamo tutti relativamente sani di mente senza fermarci finché la situazione non cambierà.

Nell’immagine: un’azione di protesta sulla Piazza Rossa di Mosca dell’artista dissidente Pyotr Pavlensky






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