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Pietro Montorfani
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• 1 Dicembre 2022 – Pietro Montorfani

Uno dei punti più alti della nazionale svizzera di calcio, agonisticamente ed emotivamente parlando, è stato toccato il 22 giugno 2018 a Kaliningrad: una vittoria al photofinish contro la Serbia, grazie a uno splendido goal di Shaquiri al 90esimo, che ci ha permesso di accedere agli ottavi di finale del campionato mondiale. Uno dei punti più bassi della nazionale svizzera di calcio, culturalmente e politicamente parlando, è stato toccato in quella stessa occasione con i gesti del simbolo albanese dell’aquila bicipite, mimati da Xhaka e Shaqiri e persino (perché poi?) dal capitano di origine lucernese Stephan Lichtsteiner.

Poiché venerdì sera, a quattro anni e migliaia di chilometri di distanza, ci attende la replica esatta di quella partita – terza di una fase a gironi, necessaria per accedere agli ottavi – c’è da sperare che si ripetano i risultati sportivi ma non le polemiche nazionaliste. Il problema sta naturalmente a monte, nell’accesa diatriba che da secoli contrappone, nella piccola regione montuosa del Kosovo, l’etnia albanese (per lo più musulmana e maggioritaria) a quella serba (ortodossa e decisamente meno rappresentata). 

La questione era stata gestita, negli ultimi decenni della Yugoslavia, concedendo ai kosovari una relativa indipendenza, non a livello delle altre repubbliche della federazione socialista (Bosnia Erzegovina, Croazia, Macedonia, Montenegro, Serbia e Slovenia) ma quasi. La cancellazione di quell’autonomia ad opera di Slobodan Milosevic il 23 marzo 1989 portò a tensioni tali che avrebbero potuto sfociare in una vera e propria guerra (alcuni profughi giunsero in quelle settimane al confine di Chiasso), non fosse stato per il pacifismo promulgato dal leader kosovaro Ibrahim Rugova che per 10 anni riuscì, a fatica, a tenere fermo il coperchio sopra una pentola in costante ebollizione. La storia ha decretato il fallimento di quella rivoluzione silenziosa che, mentre tutt’attorno iniziavano a cadere una dopo l’altra le ex-repubbliche jugoslave, in Kosovo favorì la creazione di una sorta di Stato parallelo, ma non poté impedire con questo lo scoppio del conflitto nel 1998-99.

La Svizzera, che veramente neutrale non è mai stata, almeno all’inizio guardò di buon occhio alla resistenza armanta dell’UçK capitanata da Hashim Thaçi, il futuro presidente del Kosovo che aveva studiato all’Università di Zurigo e che in seguito si sarebbe rivelato per quello che era: un criminale di guerra non molto diverso da quelli attivi sul fronte serbo (è attualmente sotto processo al Tribunale dell’Aia). Anche nel precoce riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo, dichiarata unilateralmente il 17 febbraio 2008, la Svizzera giocò un proprio ruolo, facendo da battistrada a un manipolo di nazioni che con il tempo è cresciuto, senza superare comunque la metà dei Paesi membri dell’ONU.

Non dobbiamo infatti nasconderci che la società svizzera ha, con l’etnia albanese, una relazione privilegiata e fruttuosa, della quale la nazionale di calcio è specchio oramai da molti anni: non solo Xhaka e Shaqiri, ma anche Dzemaili, Behrami e il meno noto Ardon Jashari. Bosniaco di religione musulmana è invece Haris Seferovic, e così era Vladimir Petkovic (ma di religione cattolica). Mi chiedo a volte se la totale assenza di un giocatore di origine serbo-ortodossa tra le file della nazionale sia un caso oppure una scelta intenzionale. Fatto sta che “derby” ad alta tensione come quelli di venerdì sera verrebbero forse stemperati se la Nati fosse davvero una squadra multietnica e “neutrale”, cosa che può dire di essere soltanto in parte. Dall’altro lato della barricata, d’altronde, ci mettono spesso del loro, anche per una lunga consuetudine del mondo del calcio serbo con le retoriche nazionaliste (basterebbe guardare i poco edificanti cori degli hooligans della Stella Rossa di Belgrado), testimoniata ancora recentemente dall’esposizione, negli spogliatoi di Doha, di una bandiera serba comprensiva dei territori del Kosovo.

Come se ne esce? Soltanto in un modo: confinando l’agonismo binario su cui si basa da sempre l’ambito sportivo (“Noi contro di loro”) all’erba del campo di calcio, pronti invece ad abbracciare le dinamiche più fluide e ragionevoli del meticciato in tutti gli altri ambiti, della società e della politica. Che lo sport possa essere un luogo privilegiato per l’integrazione è fuori dubbio, lo dimostrano i tanti esempi virtuosi sparsi in ogni angolo della Confederazione. Ma credere che basti correre tutti assieme dietro al medesimo pallone è un’illusione che si scontra con il perenne risorgere di antagonismi atavici, mai veramente cancellati. La guardia deve insomma restare sempre alta: bandiere e aquile lo insegnano.






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