Iran, prima vittoria delle donne coraggio
Se confermato, l’annuncio del procuratore generale d’Iran sull’abolizione della polizia morale rappresenterebbe la prima falla nel muro del regime
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Se confermato, l’annuncio del procuratore generale d’Iran sull’abolizione della polizia morale rappresenterebbe la prima falla nel muro del regime
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Se confermato, l’annuncio del procuratore generale d’Iran sull’abolizione della polizia morale rappresenterebbe la prima falla nel muro del regime
Fosse confermata (ancora non lo è ufficialmente), la notizia dell’abolizione della Gashte Ershad, la polizia morale, per prima cosa dovrebbe provocare un tributo al coraggio. Il grande coraggio delle donne iraniane, in gran parte giovani donne e ragazze, che hanno avuto la forza di sfidare, come mai era accaduto prima, un regime che in 43 anni di terrore ha fatto della violenza reattiva una delle principali armi del modello teocratico nato dalla rivoluzione khomeinista del febbraio 1979.
Sfida disarmata contro un regime iper-armato. Sfida che sembrava destinata a fallire contro il muro alto della dittatura religiosa, e che invece in quel muro sembra aver operato una breccia.
Profonda e importante, se non decisiva.
È vero che la ‘rivolta del (e al) velo’, che ha ormai superato i due mesi di proteste massicce, si è via via gonfiata con la partecipazione di una platea maschile ed etnica (curda in particolare) che l’ha estesa, consolidata. Ma il merito delle donne che per prime hanno cominciato a lanciare slogan non solo sulla difesa del loro genere e dei loro diritti, ma anche, e apertamente, per la libertà del paese in generale, e in particolare contro il ‘dittatore’ Ali Khamenei, massimo leader politico e religioso della rivoluzione sciita, è indiscutibile, corposo, sicuramente storico. Questo intreccio di fili apparentemente inestricabile per gli ayatollah – se non attraverso una violenza ancora superiore, con ricorso a Pasdaran ed esercito –, può spiegare la cancellazione dell’odiata Gashte Ershad, detestata non solo per la missione che l’ex presidente conservatore Ahmadinejad le aveva attribuito, ma anche per i metodi arroganti, e infine assassini, con cui si è imposta ritenendo di essere investita di una speciale missione etico-religiosa: mortificare il corpo delle donne, considerato esso stesso automatico ispiratore delle più gravi provocazioni sessuali e di disubbidienza sociale dai detentori di un potere maschile e patriarcale che non trova ragioni nemmeno negli ‘hadith’ del profeta. Persino una ciocca di capelli ribellatasi al hijab, il velo che secondo i questurini della morale era portato scandalosamente male dalla ventiduenne Mahsa Amini, tanto da meritarsi l’arresto, le torture e la morte in carcere. La prima delle 200 vittime e dei 14 mila manifestanti imprigionati finora.
Si capisce dunque il rilievo dato all’annuncio del procuratore Mohammad Jafar Montazeri, fatto per di più a Qom, centro dei seminari e della spiritualità sciita. Bisognerà attendere di capirne la veridicità e l’effettiva portata. Ed è vero che, benché poco evidenziate, voci più moderate all’interno del regime si erano levate, ancor prima della ribellione, contro l’obbligatorietà del velo, contro i metodi della polizia morale, e contro le pesanti sanzioni previste. Il che nulla toglie allo straordinario ardore della protesta, senza la quale il fioco confronto all’interno del sistema probabilmente sarebbe rimasto improduttivo. “Il velo è l’essenza stessa della rivoluzione islamica”, aveva affermato nei primi giorni della contestazione un dignitario della linea intransigente. E questo dà la misura di quanto può essere importante la faglia prodottasi con l’annuncio di Montazeri. Proprio in una fase in cui il governo degli ayatollah sconta una accresciuta crisi economica e un contestato aiuto militare di Teheran alla Russia di Putin, indimenticato massacratore dei civili musulmani ceceni. In più, quell’inno non cantato dalla nazionale nei mondiali in Qatar. Nulla di decisivo, certo. La potenza repressiva del clero sciita è ancora grande, e tanti sono i miliardi di sussidi con cui viene quotidianamente comprata la fedeltà dei più diseredati che altrimenti diventerebbero una miccia sociale. Mentre il coraggio di pretendere libertà, quello, non si compra.
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