La mossa della Cina sull’auto: produrre le batterie in Europa
Progetti miliardari in impianti per aggirare il blocco all’import
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Progetti miliardari in impianti per aggirare il blocco all’import
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Progetti miliardari in impianti per aggirare il blocco all’import
Mentre l’Europa prova a rendere le proprie industrie strategiche meno dipendenti dal resto del mondo, le aziende cinesi stanno consolidando a suon di investimenti un ruolo di primo piano – per alcuni dominante – in una produzione chiave per la transizione energetica del Vecchio Continente: le batterie. Non esportandole dalla Cina, bensì producendole direttamente in Europa, vicino alle case che le monteranno nelle loro auto con la spina. Nel 2022 quella in nuovi stabilimenti di batterie, soprattutto in Ungheria e Germania, è diventata in assoluto la prima voce degli investimenti diretti cinesi in Europa, secondo un rapporto dei think tank Merics e Rhodium Group. Una crescita esponenziale che spicca, visto il crollo delle le altre voci. E che, scrivono gli analisti, dovrebbe ulteriormente rafforzarsi per la “complementarietà” tra la fame di batterie dell’Europa – che dal 2035 fermerà i motori a combustione – e la voglia di espansione dei campioni cinesi come Catl e Byd.
Rischio o opportunità per l’Europa? Gli addetti ai lavori si dividono. La prima cosa da dire, confermata dai numeri 2022, è che gli investimenti cinesi hanno cambiato forma. Lo shopping di aziende europee, che ha raggiunto il picco tra il 2016 e il 2017, anche in Italia, si è quasi azzerato. Da un lato per le restrizioni imposte da Pechino all’uscita dei capitali, dall’altro per le barriere alzate dai Paesi europei in settori strategici come infrastrutture e chip. Il crollo delle acquisizioni (soprattutto da colossi di Stato) ha portato ai minimi da dieci anni gli investimenti totali cinesi in Europa. Ma nel frattempo sono aumentati, diventando prioritari, quelli “greenfield”, cioè in nuovi stabilimenti, da parte di aziende private. Il 53% su auto elettrica e batterie.
Le imprese cinesi, partite prima e aiutate dai sussidi del governo, sono leader globali. E hanno scommesso sull’espansione in Europa, secondo mercato mondiale delle vetture con la spina, annunciando dal 2018 stabilimenti di batterie per oltre 15 miliardi di euro. Spicca quello da 7,6 miliardi di Catl in Ungheria, che Orbán – amico di Pechino – vuole rendere il nuovo hub dell’auto elettrica: sarà il più grande del Continente. A ruota ci sono Volvo – proprietà della cinese Geely – in Svezia, e quelli della stessa Catl e di Svolt in Germania. Nel frattempo anche i primi produttori comunitari, come la svedese Northvolt, costruiscono impianti, così come Tesla e le stesse aziende dell’automotive. Ma i cinesi faranno la parte da leone, garantendo il 20% della produzione europea nel 2030. Con il loro maxi piano di incentivi “verdi” gli Stati Uniti hanno preso una strada opposta: gli sconti per chi acquista elettrico escludono i veicoli con batterie cinesi, un tentativo di “desinicizzare” l’intera filiera. Tagliate fuori dagli Usa, le aziende del Dragone non trovano invece barriere in Europa. A preoccupare le case comunitarie è la possibilità che, dalle batterie, si spostino a monte e soprattutto a valle della filiera: alcuni produttori di veicoli elettrici – tra cui la stessa Byd – hanno iniziato una campagna di espansione aggressiva in Europa, dove valutano di aprire i primi stabilimenti. A preoccupare alcuni politici invece è il rischio dipendenza, visto che Pechino usa spesso la propria forza economica, anche delle aziende private, come strumento di ricatto.
La maggior parte dei Paesi però non sono intenzionati ad alzare barriere sulle batterie, e alcuni mettono sul piatto incentivi. E la stessa Commissione, che ha varato un piano per spingere la produzione europea delle materie prime strategiche come il litio – pure dominate da Pechino – ritiene che avere le Gigafactory cinesi in Europa, con relativo indotto, sia un compromesso accettabile, o necessario, tra rischi e opportunità. Si vedrà. Ma due cose sono già chiare. Una è che l’Italia è uno dei pochi Paesi Ue, l’unico tra i grandi, a non comparire sulla mappa degli investimenti elettrici del Dragone. La seconda è che il percorso europeo verso l’auto verde non potrà prescindere da pezzi cinesi. Anche se prodotti in Europa.
Nell’immagine: una “gigafactory” dell’azienda svedese Northvolt
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