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Nel periodo elettorale i contributi di candidate e candidati sono benvenuti sulla nostra zattera secondo queste regole

Il Nicaragua della Rivoluzione sandinista è sempre più un pallido ricordo. Per le elezioni di oggi, Daniel Ortega, che si propone per il quarto mandato consecutivo, la stampa indipendente è in carcere o costretta a operare nella clandestinità (e dall’esilio). È così dalla clamorosa rivolta popolare dell’aprile 2018, partita soprattutto da studenti (i “nipoti” del general de hombres libres Sandino) che durò mesi e venne repressa nel sangue, con l’uccisione di almeno 328 contestatori. Col “fu” comandante de la revolución Ortega a spacciarla maldestramente per un tentato golpe esterno.

Da allora in Nicaragua vige un asfissiante stato di polizia, che l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale non ha fatto che esasperare. Nell’ultimo anno le leggi varate per iniziativa dell’esoterica vicepresidente Rosario Murillo (nonché consorte di Ortega) hanno reso illegale qualsiasi forma di dissenso, introducendo per esempio il reato di “tradimento alla patria”, perseguendo le ong locali sostenute da “agenti stranieri” e abbinando infine assurde accuse di riciclaggio di denaro. Col risultato di azzerare la residua dinamica politica, oltre che ciò che rimaneva di società civile organizzata.

Dal giugno scorso tutti e sette gli aspiranti candidati presidenziali (di varia estrazione politica) sono stati incarcerati (o sottoposti agli arresti domiciliari) e tre partiti sono stati messi al bando. Gli uni e gli altri sostituiti da fantocci di comodo al servizio dell’orteguismo, come il reverendo Guillermo Osorio di Camino Cristiano. Sono finiti dentro, a mo’ di avvertenza, anche alcuni esponenti (minori) dell’oligarchia imprenditoriale locale con la quale Ortega aveva sottoscritto un patto all’insegna dell’arricchimento esentasse, cui il suo clan si è sommato.

Ma un particolare accanimento è stato riservato a quei dirigenti sandinisti che già all’indomani della sconfitta elettorale del ’90 furono tagliati fuori dal delirio di potere del sempiterno segretario e candidato del Fronte Sandinista, perché impegnati nella difesa del sistema democratico propiziato dalla rivoluzione stessa e dunque intenzionati a riconquistare la guida del paese attraverso le urne.

Primo fra tutti lo scrittore Sergio Ramirez, premio Cervantes, vice di Ortega per tutta la durata del governo rivoluzionario, e dal settembre scorso rifugiatosi a Madrid per sfuggire a un mandato di cattura per “incitamento all’odio” formulatogli a Managua dopo la censura del suo ultimo romanzo in cui racconta la rivolta di tre anni fa. Come lui fra Spagna e Usa ha trovato riparo la nota letterata Gioconda Belli. Mentre ben prima i cantautori Luis Enrique e Carlos Mejia Godoy, simboli dell’epopea rivoluzionaria, avevano dovuto fuggire nel vicino Costarica (insieme a decine di migliaia di nicaraguensi).

Se non si fossero rifugiati all’estero, il loro destino sarebbe stato quello dell’isolamento nelle galere orteguiste, senza processo, insieme ad altri 159 dissidenti, dei quali una quarantina imprigionati negli ultimi tre mesi: fra essi la mitica comandante Dora Maria Tellez, o l’ex generale dell’esercito sandinista Hugo Torres, la cui audace operazione con scambio di ostaggi permise la liberazione dello stesso Ortega dalle segrete della dittatura somozista.

Al bando sono finiti pure i membri sopravvissuti della storica Dirección Nacional collegiale rivoluzionaria, compreso l’ex ministro della difesa generale Humberto Ortega, fratello di Daniel; che non si sarebbero certo immaginati che il primus inter pares da loro scelto per l’apparente “modestia” politico-intellettuale si convertisse in tiranno. Solo uno di loro è rimasto al suo fianco.

Da ultimo l’ex direttore di Barricada (un tempo organo ufficiale del Fronte Sandinista) Carlos Fernando Chamorro, oggi a capo di Confidencial, giornale che è costretto a confezionare sul web ogni giorno dal Costarica grazie alla fitta rete sotterranea di informazioni digitali dal Nicaragua. Più clemente per lui l’esilio forzato, da figlio quale era di quel Pedro Joaquin Chamorro, che il tiranno Somoza fece ammazzare da direttore del quotidiano d’opposizione La Prensa.

Per non parlare delle numerosissime vittime “meno in vista”, come la dozzina di difensori di ambiente e territorio ammazzati nell’ultimo anno nelle zone indigene del paese dove imperano gli espropri e la deforestazione.

Il tutto nella più totale impunità e indifferenza per un paese che aveva fatto la storia e oggi irrilevante, dimenticato o rimosso, se non fosse per qualche rituale scomunica o sanzione ad personam da parte della comunità internazionale.

Pur tuttavia ha indotto figure carismatiche della sinistra mondiale come Noam Chomsky, Margaret Randall o l’ex guerrigliero ed ex presidente dell’Uruguay Pepe Mujica (per citarne alcune) a prendere nettamente le distanze dalla coppia presidenziale nicaraguense. Come a ratificare che la presunta “seconda tappa della rivoluzione” intrapresa da Ortega nel 2007 non era altro che un’illusione.

Siamo dunque a una tragica farsa elettorale, priva di una qualsiasi affidabilità nei numeri, e dall’esito annunciato. Gli oppositori hanno potuto solo fare appello a restare a casa. Già nelle ultime consultazioni del 2016, girando per i seggi della capitale, avevamo riscontrato l’assenza delle code delle consultazioni precedenti. Eppure il governo allora notificò oltre il 70% di affluenza. Ma oggi, nonostante tenga sotto ricatto i dipendenti pubblici, ha dovuto concedere ben quattro giorni di festa, ridurre il numero dei seggi e ammettere al voto anche chi è privo di un documento d’identità valido. Proibiti gli osservatori internazionali, potranno assistere solo “accompagnatori” rigorosamente selezionati dal regime. Tantomeno presenzieranno inviati dei media stranieri che pure numerosi avevano sollecitato un accredito mai ottenuto.

Il 70% della popolazione intanto resta condannato ad un’economia di sopravvivenza; mentre il Covid continua a fare strage: il Nicaragua è lo stato latinoamericano meno vaccinato (dopo Haiti); con i beneficiati (i più fedeli al regime) che non arrivano neppure alle due cifre.






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