Per una nuova idea di pace
A poco più di un anno dalla scomparsa dell’israeliano Abraham B. Yehoshua, Einaudi pubblica “Il terzo tempio” – Intervista alla traduttrice Sarah Parenzo
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A poco più di un anno dalla scomparsa dell’israeliano Abraham B. Yehoshua, Einaudi pubblica “Il terzo tempio” – Intervista alla traduttrice Sarah Parenzo
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A poco più di un anno dalla scomparsa dell’israeliano Abraham B. Yehoshua, Einaudi pubblica “Il terzo tempio” – Intervista alla traduttrice Sarah Parenzo
Ha il sapore di un ultimo regalo questo Il terzo tempio, nonostante le dimensioni ridotte (soprattutto se paragonato ai lunghi romanzi che il narratore israeliano ha proposto al pubblico nel corso dei decenni), e promuove un’originale visione pacifica per il futuro di Gerusalemme, città santa e perennemente contesa. Questa novella in forma di dialogo di Abraham B. Yehoshua, uscita in italiano per Einaudi, è la continuazione ideale della novella La figlia unica (sempre Einaudi) e di nuovo, anche se forse più trasversalmente, vi ritroviamo prepotente il leitmotiv dell’identità. Nissim Shoshani, cinquantenne giudice di tribunale rabbinico, riceve nel suo ufficio di Tel Aviv la misteriosa Esther Azoulay, che in un perfetto ebraico dall’accento francese con caparbia e insistenza vuole deporre una testimonianza, anche in assenza di un fascicolo. L’inconsueto incontro a porte chiuse tra una donna e un rabbino ortodosso offre a Yehoshua l’opportunità di imbastire intorno al lettore la sua consueta tela seduttiva fatta di parole scelte con cura, di profondo affetto per i personaggi e, non da ultimo, dell’escamotage di chi riesce a dare vita alla tensione narrativa ovunque se ne presenti l’opportunità. Esther Azoulay, donna colta e fuori da ogni schema (e di schemi, come tutte le ortodossie, anche quella ebraica ne ha numerosissimi) brama di riferire a Shoshani le malefatte di un altro rabbino, Modiano, che le ha impedito di convolare a nozze con l’amato David Mashiah, ebreo parigino di origini iraniane. Il romanzo è stato tradotto da Sarah Parenzo, già autrice di un dottorato di ricerca sui risvolti etici e psicoanalitici della fortunata ricezione italiana dello scrittore (e collaboratrice di “Azione”).
Sarah Parenzo, come dobbiamo interpretare questa pièce di Yehoshua: è un testamento o un auspicio di pace?
Nell’immaginario collettivo è impossibile separare lo scrittore Yehoshua, uno dei più grandi rappresentanti della narrativa del Novecento, dall’intellettuale attento alla situazione politica e sociale di quello straordinario laboratorio che è lo Stato di Israele. In quest’anno abbiamo assistito a un precipitare della situazione politica che si è tradotta in un’escalation di violenza senza precedenti anche in seno alla società civile. In un momento in cui la cessazione dell’occupazione a carico del popolo palestinese sembra essere depennata dall’ordine del giorno, Il terzo tempio è un’opera profetica che ci consegna un importante messaggio di umanità e di pace le cui radici affondano proprio nella tradizione biblica ebraica.
È stato consolatorio tradurre il libro in questo anno di lutto?
Mi è stato di grande compagnia e consolazione. Del resto quando muore un personaggio come lo era Yehoshua, l’eredità intellettuale e politica è talmente importante da farne percepire ancora la presenza. Nella solitudine politica degli ultimi mesi mi sono interrogata spesso su come avrebbe reagito lui al cospetto delle due grandi fazioni che si fronteggiano da quando l’ultima vittoria di Netanyahu ha originato un movimento di protesta di proporzioni incredibili. Nello spazio pubblico si registrano un’inquietudine e un disagio che non ricordo di avere mai percepito in vent’anni di vita qui. Yehoshua si era già espresso negativamente sulle manifestazioni durante il Covid, non perché a favore del Governo Netanyahu naturalmente, ma perché non scorgeva in questa modalità una reale soluzione al problema. Personalmente trovo imbarazzante questo nazionalismo esacerbato, così come le enormi bandiere sventolate in piazza (contro la riforma giudiziaria, ndr.). Attualmente lo spazio dei manifestanti non è inclusivo per molte categorie, penso ai sefarditi, ai mizrachìm, a quegli ebrei che non si identificano più nei simboli militari e, naturalmente, ai palestinesi. Anche i religiosi, in particolare gli ultraortodossi accusati di non rispondere alla chiamata di leva, vengono demonizzati e ultimamente aggrediti verbalmente. Alla luce di tutto ciò stiamo andando nuovamente verso la divisione. Al contrario, questo libro può essere letto come un auspicio di integrazione dei diversi ebraismi all’interno dello Stato di Israele, ossia la necessità di convivenza tra ebrei diversi e, ovviamente, tra ebrei e non ebrei. Credo che il messaggio del Terzo tempio sia proprio questo: al di là delle responsabilità, ci sono delle complessità che ci impongono di vivere insieme e dobbiamo trovare una via comune.
Nella pièce troviamo un rabbino che in fondo incarna molti modi di essere rabbino, la scelta di Yehoshua è caduta su una figura umile e molto umana.
Shoshani appartiene al partito dello Shas fondato nel 1984 dal grande rabbino Ovadia Yosef, colui che è riuscito a elevare i sefarditi ultraortodossi dalla posizione di inferiorità rispetto agli ashkenaziti. Questa scelta rispecchia, secondo me, una nuova disposizione d’animo dell’ultimo Yehoshua, alla stregua del suo recente sostegno dello Stato unico: facendo pace con diverse parti della società, pur restando laico, si è rappacificato anche con le proprie origini, non dimentichiamo infatti che suo nonno paterno era a sua volta un importante rabbino, giudice del tribunale della comunità sefardita.
Nel libro Esther immagina la costruzione di un Terzo Tempio, lievemente dislocato rispetto ai tradizionali luoghi sacri e storicamente contesi della città vecchia. Un luogo libero e aperto anche ad altre religioni…
Già, la distruzione del Secondo Tempio viene attribuita alla divisione, al famoso odio gratuito. Dovremmo smetterla con queste spaccature, che porteranno solo a un indebolimento generale del Paese, esponendolo a rischi di vario genere. Yehoshua ci chiama a un’integrazione delle varie parti, sia del singolo sia del collettivo. Credo che questo sia l’ennesimo monito dello scrittore a fare dei cambiamenti che risiedano nella tradizione senza tuttavia permettere al passato di paralizzarci.
Anche in questo libro, nel momento della scelta, Yehoshua salva sempre la collettività, sacrificando l’individuo.
Questo aspetto attraversa un po’ tutte le sue opere come un fil rouge. Una volta, nel corso delle conversazioni che abbiamo registrato sui primi trent’anni della sua vita, Yehoshua ammise di non aver mai provato interesse per la nevrosi del singolo. Ha dunque sempre prediletto la fantasia e il bene della società, concentrandosi sull’etica più che sulla psicologia, ed è anche per questo che nella sua scrittura troviamo spesso metafore delle problematiche interne israeliane. Questo approccio che prevede un’attenzione all’etica è ben espresso anche nel suo saggio Il potere terribile di una piccola colpa (Einaudi).
È interessante, per quanto insolito, che a tenere testa al rabbino Shoshani sia Esther, una donna di origini straniere.
È vero, è quasi paradossale, Yehoshua infatti, pur sacrificandola, o meglio, apparentemente condannandola alla solitudine, le conferisce un ruolo estremamente importante. Esther è straniera, per giunta convertita, ma dimostra delle doti sia oratorie sia di conoscenza del diritto ebraico non comuni, e questo la rende eclettica e originale. Il motivo di una donna convertita che propone quella che potrebbe essere la soluzione a tutti i mali di Gerusalemme, richiama il Libro (biblico) di Rut, figura dalla quale discenderà il Re Davide e, a sua volta, il Messia. Forse, chissà, quello di Yehoshua è anche un invito alle donne ad assumere un ruolo più attivo. Non dimentichiamo infatti che la condizione femminile in Israele è una delle peggiori tra i Paesi sviluppati. Il fatto che qui le donne abbiano imbracciato il fucile non si è ancora tradotto nella loro reale emancipazione all’interno della società. Infine, le origini straniere di Esther potrebbero alludere al fatto che la soluzione potrebbe giungere anche da fuori. Del resto Yehoshua parlava spesso di «identità mediterranea», invitando il cristianesimo e l’Europa a darsi più da fare per il conflitto. Penso che questi inviti rimangano aperti e varrebbero una riflessione, magari partendo proprio dalla messa in scena di questa opera letteraria.
Nell’immagine: David Roberts, “Le colonne di Absalom” (1839)
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