Sommo diritto, somma ingiustizia: il caso Carsten Semenya
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo riabilita la donna squalificata per eccesso di ormoni maschili
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La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo riabilita la donna squalificata per eccesso di ormoni maschili
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La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo riabilita la donna squalificata per eccesso di ormoni maschili
Il ‘casus belli’ sul piano giuridico si è verificato in occasione di un meeting su suolo elvetico: gli organizzatori hanno applicato le direttive della Federazione Internazionale e hanno chiesto alla ragazza sudafricana di presentare un documento in grado di testimoniare il suo ‘status’ biologico. Carsten si è rifiutata, ma poi ha deciso di ricorrere alle massime istante della giustizia sportiva e di quella ordinaria.
Entrambe le hanno dato torto. Ma ora la sentenza della Corte Europea rimette tutto in gioco: Carsten potrebbe pretendere indennità milionarie e svenare la Federazione e il CIO; inoltre, in futuro, gli umani dal confine biologico non ben delineato potrebbero partecipare alle gare femminili, di fatto cancellando i quatto anni di lavoro che intercorrono fra le Olimpiadi dell’“Altra metà del Cielo”, come dicono i cinesi. Ed eccoci costretti a riproporre il ‘Summum jus, summa iniuria’ di Cicerone e Terenzio.
La Corte europea ha privilegiato l’aspetto umano, il diritto di Carsten di esprimere sé stessa con la corsa (‘è la mia vita”), ma in questo modo ha cancellato il diritto delle sue avversarie dotate di passaporto biologico diverso a gareggiare su un piano di eguaglianza. Un caso analogo, di ‘sommo diritto, somma ingiustizia’, si era verificato una trentina d’anni fa in America in pieno verminaio ‘doping’, quando il Dr. Kerr di Los Angeles prescriveva l’ormone della crescita, in medicina usato per i bambini il cui processo di crescita si era interrotto.
L’allenatore di Mennea, Vittori, mi aveva insegnato a confrontare i primi piani degli atleti, uomini e donne, di anno in anno: gli zigomi si facevano più pronunciati, aumentavano naturalmente anche le dimensioni di mani e piedi. Un campione si rivolse a un giudice dimostrando che grazie all’atletica manteneva la famiglia. Il giudice decretò che l’atleta, pieno di doping come un uovo, non poteva essere squalificato, dal momento che la Costituzione garantiva ad ogni cittadino il diritto al lavoro. La sua squalifica sarebbe equivalsa a un “Berufsverbot”, una proibizione ad esercitare il proprio mestiere. Alla fine però la giustizia sportiva ebbe la meglio.
Il caso Semenya è molto delicato perché lei si sente donna e si sente libera e viva solo quando può correre, come le antilopi alle quali nessuno ha mai controllato il livello di testosterone. Avendo commentato l’atletica nel corso di dieci Olimpiadi consecutive, dico che la decisione salomonica della Federazione internazionale è la più corretta, perché salvaguarda il diritto delle donne così come la dignità di Semenya, che dovrà soltanto accettare di misurarsi su una distanza, i 1500 metri, sulla quale la sua struttura muscolare non le permetterà d’imporsi (troppo) facilmente, com’è avvenuto negli scorsi anni nella sua disciplina d’elezione, gli 800 metri.
Nell’immagine: Carsten Semenya
Una replica di Manuele Bertoli, Direttore del Dipartimento Educazione, Cultura e Sport
Riflessioni anche controcorrente dell’inviato ticinese Filippo Rossi, collaboratore di quotidiani svizzeri e del settimanale l’Espresso