La guerra petrolifera
Per un barile di troppo… o di meno
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Per un barile di troppo… o di meno
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In realtà sembra a prima vista una sorta di risposta più radicale ad uno smacco. Nei primi nove mesi dell’anno le esportazioni russe, essenzialmente di idrocarburi, sono aumentate del 25%, raggiungendo la cifra di 431 miliardi di dollari. A causa di un forte calo delle importazioni (-15%, in parte dovuto alle sanzioni), la Russia ha realizzato un attivo primato della bilancia commerciale (differenza importazioni/esportazioni) di 251 miliardi di dollari. Anche se gli Europei hanno diminuito fortemente gli acquisti di idrocarburi dalla primavera, l’industria petrolifera russa ha quindi girato a pieno regime: in ottobre la Russia esportava ancora 7.7 milioni di barili al giorno (secondo l’Agenzia internazionale dell’energia) e con un enorme vantaggio in più: a causa delle sanzioni, il prezzo del petrolio era triplicato.
I 27 paesi dell’Unione europea, secondo il Centro di ricerche sull’energia e la qualità dell’aria (CREA) che raccoglie tutte le informazioni possibili sull’acquisto di idrocarburi russi, hanno importato dalla Russia, dall’inizio della guerra in Ucraina (24 febbraio-11 dicembre) per 120 miliardi di franchi di energie fossili (secondo il tasso di conversione in franchi del 13 dicembre), di cui 68.5 solo per il petrolio (48.4 per il gas, resto carbone). Otto paesi (tra cui Germania, Austria, Italia, Francia, Belgio) ne rappresentano l’81 per cento.
Problema quindi degli Americani e degli Europei: rompere questa equazione: meno petrolio = maggior guadagno, fissando un tetto del prezzo. Con un forte dubbio che la rottura dell’equazione riesca, che non si ritorca in disastro oppure che non sia il solito gioco delle tre carte in cui a perdere tutto sono…gli onesti creduloni.
Innanzitutto, rimane il fatto che la Russia è il terzo produttore mondiale di petrolio e il secondo esportatore dopo l’Arabia Saudita (che, nonostante le visite e le lusinghe del presidente Biden, generoso anche sui diritti e il caso Khashoggi, non intende aumentarne la produzione per ovvi motivi).
L’embargo riguarda però solo le importazioni per via marittima. Ungheria, Cechia, Slovacchia, che dipendono interamente dall’approvvigionamento russo, continueranno a ricevere petrolio russo. La Bulgaria ha ottenuto il permesso di ricevere petrolio per via marittima. Comunque, secondo le valutazioni della Commissione europea, l’Europa dovrebbe sopprimere il 90 per cento delle importazioni di petrolio russo entro la fine dell’anno.
Dalla primavera scorsa i paesi europei hanno cercato di diversificare le fonti di approvvigionamento (Arabia Saudita, Emirati Arabi, Nigeria e altri). Altri singolari attori sono però apparsi sul mercato petrolifero: Cina, India, Turchia e, in misura minore, l’Egitto. Sono stati “assunti” dalla Russia per aggirare le sanzioni: essi acquistano infatti dei carichi in provenienza dall’Artico, a prezzi di favore, per rivenderli poi a prezzo elevato in Europa e persino negli Stati Uniti.
Il Giappone dal canto suo beneficia di alcune esenzioni per le forniture petrolifere russe provenienti dall’ isola russa di Sakhalin. Il tutto capita con una opacità pressoché assoluta, per mascherare la vera origine del petrolio grezzo. Non è certo casuale se le superpetroliere e i cargo hanno cambiato proprietari e bandiera in maniera impressionante negli ultimi tempi; secondo l’agenzia americana Bloomberg addirittura il 10 per cento della flotta mondiale di tankers appartiene a proprietari…sconosciuti, mascherando ancora meglio tutto e permettendo comunque di ingannare le compagnie di assicurazione ed evitare la minaccia del boicottaggio assicurativo.
In secondo luogo, c’è una quadratura del cerchio: come sanzionare la Russia privandola della sua rendita petrolifera senza perturbare tutto il mercato dell’energia e scatenare ancora un ulteriore rialzo dei prezzi pregiudizievole per tutta l’economia?
Quella del plafonamento del prezzo è idea americana (di Janet Yellen, segretaria di stato al Tesoro): punta sul fatto (un poco ipocrita) che la Russia continuerà comunque ad alimentare il mercato con il suo petrolio; bloccandole però il prezzo, si troverà limitati i profitti (“60 dollari al barile è troppo!”, ha comunque subito tuonato il presidente ucraiano Zelensky). Sembra o la classica arroganza a buon mercato, tipicamente americana, o il classico fare i conti senza l’oste.
Dal 5 febbraio prossimo si aggiunge infatti un altro fatto: l’Europa estenderà l’embargo anche sui prodotti raffinati provenienti dalla Russia. Ora, uno degli approvvigionamenti essenziali per i paesi europei, ma anche per gli Stati Uniti, è soprattutto il diesel. Il 60% del diesel consumato in Europa è fornito dalla Russia. Si sa che negli Stati Uniti le riserve di diesel sono al livello più basso dal 1982 e permettono solo 25 giorni di sopravvivenza. Non c’è modo di sostituirlo, anche perché è scarso ovunque (“nei prossimi mesi in tutte le regioni del mondo si corre il rischio di dover far fronte ad una seria penuria di diesel”, avvertiva in questi giorni l’agenzia americana Bloomberg). Ora il diesel rimane (purtroppo) indispensabile nei trasporti e in numerose industrie. Putin non si priverà certo di questa arma. C’è una certezza: a pagarne il prezzo più esorbitante sarà l’Europa intera. Anche se c’è un aspetto positivo: dover consumare meno diesel è un guadagno per l’ambiente.
Nellîmmagine: Christo e Jeanne-Claude, “La mastaba – 1240 barili di petrolio”. Progetto per l’Institute of Contemporary Art, Philadelphia
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