G20 e un Afghanistan già molto lontano

G20 e un Afghanistan già molto lontano

C’è di tutto nel menu politico del summit mondiale di Roma; tranne la priorità di soccorrere un paese ridotto alla fame, di cui l’Occidente è il primo responsabile


Aldo Sofia
Aldo Sofia
G20 e un Afghanistan già molto lontano

Cosa manca sulla scena e nel menu politico di questo G20 romano? Non mancano un po’ di ‘impresentabili’ o quantomeno ‘discutibili’ leader mondiali. Un principe saudita, Bin Salman, lanciato in una sorta di rinascimento arabo con suggeritore un ex premier italiano (sempre lui, il ‘bomba’ Matteo Renzi), ma intanto fa fare a pezzi (letteralmente) il corpo un giornalista oppositore attirato in una trappola; un brasileiro, Jair Bolsonaro, che non si vergogna di sottolineare i benefici (tortura compresa) dell’epoca della dittatura militare e di cui si chiede la messa sotto accusa giudiziaria per il modo scellerato con cui ha mandato allo sbando il suo paese preso nella morsa del Covid 19; l’indiano Modi, l’induista  radicale che perseguita la minoranza (assai consistente) dei musulmani del proprio sub-continente (che ci ostiniamo a definire la ‘più popolosa democrazia del mondo’) e che viene accolto con tutti gli onori in Vaticano; e nemmeno manca Erdogan, sempre più protagonista di una deriva autoritaria con forti contenuti dittatoriali e di missioni militari all’estero, che, anche in barba alla Nato, gli servono per cementare il suo nazionalismo islamico (dalla repressione dei curdi in Siria agli interventi nerboruti in Libia e nel Mediterraneo orientale). Ma c’è anche dell’altro fra le tracce archeologiche della Roma antica, che ispirano un Boris Johnson che ammonisce sulla prossima fine anche dell’impero occidentale odierno se non si cambia rotta, proprio lui che ha scelto la navigazione solitaria e ne sta pagando le conseguenze.

C’è anche il rilancio del necessarissimo multipolarismo (ci si parla e si collabora tutti insieme) che dopo gli stizziti strappi del trumpismo ridiventa il mantra diplomatico buono per tutte le stagioni. Certo, c’è , nel menu del mega-summit, il clima, anche se sembra che da Roma non partirà un chiaro, forte, unitario programma per tentare di salvare a Glasgow il ‘decisivo’ (ancora una volta) vertice mondiale su un pianeta sempre più malato di emissioni nocive (manca poco alla mezzanotte e all’irrimediabile, continuano a ripeterci gli esperti). Beh, c’è anche il rinnovato impegno comune di ‘vaccinare’ quella parte di nazioni (la maggioranza) a cui finora, nonostante le promesse, il nostro egoismo e la nostra miopia hanno lasciato un numero irrisorio e vergognoso di dosi.

Ah sì, c’è l’ennesimo varo della ‘tassa minima’ del 15 per cento sulle multinazionali che ancora possono tranquillamente evadere/eludere il fisco in particolare nei paesi dove fanno utili stratosferici, e che la fanno franca mettendo il loro quartier generale in capitali assai comprensive e generose in termini di imposizione fiscale: e si tratta di un po’ d’ossigeno per il povero Joe Biden, che a Washington ancora non riesce a far passare i suoi mega piani di investimenti pubblici per l’aiuto alle famiglie, il radicale rinnovamento delle infrastrutture, e il già affossato piano per aumentare le imposte all’1% dei miliardari americani (‘fate la vostra parte’, continua a ripetere, ma evidentemente l’implorazione non basta). E cosa o chi manca d’altro in questo G20 alla corte di Mario Draghi, mentre fuori delle zone rosse sfilano pacifici ragazzini che protestano per avere un futuro almeno ecologicamente più sicuro, ed operai di un paio di fabbriche vittime della delocalizzazione?

Certo, mancano Putin e Xi, almeno fisicamente, visto che il pretesto del Covid  evita al russo e al cinese il fastidio di partecipare di persona alla litania multilaterale, concetto che ai presidenti russo e cinese piace assai poco, preferendo le soluzioni che scaturiscono dai rapporti di forza e non dall’eterna fragilità della negoziazione paziente e collettiva; pazienza, li si vedrà e ascolterà ‘in remoto’. Ma allora non manca proprio nulla, come è ormai tradizione per queste mega-passerelle il cui ordine del giorno si gonfia, inutilmente, sempre più? Pensateci bene, qual è la parola che manca, che viene trascurata, e che forse troverà uno spazio ma piccolo nell’interminabile comunicato finale? Quella parola è: Afghanistan. A due mesi e mezzo dalla caduta di Kabul, dalla disastrosa gestione dell’evacuazione dei collaboratori in fuga con le loro famiglie, dell’inizio delle denunce sul fascio-islamismo di ritorno, sulla repressa condizione femminile, e di tutto il resto, i ‘grandi’ del pianeta dimenticano o infilano all’ultimo posto la tragedia afghana.  E pensare che fra  fra di loro vi sono i principali responsabili di questo incubo, affiancati da chi, su un’altra sponda, ne vuole trarre il massimo profitto geo-politico. Quella parola dovrebbe risultare in cima all’elenco delle preoccupazioni più urgenti, dovrebbe essere una priorità. L’Afghanistan sta precipitando nel baratro di una crisi economica gravissima.

Già si muore di fame. Le banche sono chiuse. Il lavoro manca. I prezzi galoppano. In città e villaggi l’inverno fa scendere il termometro anche a venti sottozero, ma per scaldare intere e numerose famiglie devono bastare le coperte, manca il carburante e la legna scarseggia. Ci vorrebbe un piano mondiale di emergenza e di soccorso alla popolazione civile. Ma no, ora al potere ci stanno i Talebani, poco importa se per responsabilità diretta americana e indiretta europea.  Ci stanno i Talebani e soccorrere il paese allo stremo sarebbe come riconoscerli diplomaticamente e consolidarli politicamente. Che comincino a soffrire e a morire di fame, come se la colpa fosse unicamente dei ‘barbuti’, dopo che per due decenni il paese si è nutrito praticamente solo grazie ai generosi e interessati aiuti degli occupanti stranieri. Poi si vedrà. Intanto meglio aiutare le nazioni che stanno ai confini dell’Afghanistan, affinché si alzino nuove tendopoli e nuove baraccopoli per milioni di fuggiaschi.

L’importante è che quei disperati stiano lontani dall’Ovest. Svizzera compresa. Grazie G20.

Fotografia: Paul Kagame (CC)

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